Recensioni / I paradossi di Marina Ballo

Nel suo libro Con la coda dell’occhio. Scritti sulla fotografia (a cura di Stefano Chiodi, Quodlibet 2017) Marina Ballo Charmet ripercorre in maniera davvero completa non solo la sua opera di artista, ma anche la sua formazione, la sua esperienza, inanellando capitoli che ci permettono di veder crescere progressivamente il suo pensiero, la cui prima caratteristica è una coerenza oggi diventata rara: il suo percorso è lineare, ogni ciclo di opere nasce per riflessione sul precedente, in uno sviluppo che non ha sbandate, propriamente. Anche nella sua formazione si riconosce un percorso che è stato di tutta una generazione, o di una sua parte naturalmente, chiara e decisa. Basta scorrere i titoli dei capitoli per averne un’idea: l’inconscio, l’empatia, il quotidiano l’ordinario l’incerto, il rimosso, il caso, il corpo, presentare non rappresentare, eterotopie… Nel libro si trova anche il racconto di come sono nate le idee dell’artista, quali sono state le letture, quali i compagni di strada, le influenze, racconto ricostruito da Ballo in maniera estremamente precisa e severa, essenziale ma completa.

  Se inizio da qui è in realtà perché voglio poi dire che questa coerenza è lineare soltanto apparentemente, mentre di fatto è basata su un paradosso di fondo, che ne fa tutta la ricchezza e secondo me l’originalità. Riassumerei il percorso in questo modo: l’influenza della psicanalisi, e in particolare della psicanalisi infantile, ha determinato gli interessi di Ballo nei confronti di un certo modo di guardare, di vedere, quello dei bambini. Come guardano i bambini? E perché i bambini? Innanzitutto si parla dei bambini il più indietro possibile con l’età, con un gioco di parole che si rifà all’etimologia diciamo l’infante, il bambino prima che parli, prima dell’acquisizione del linguaggio verbale. Per usare la terminologia che impiega Ballo al centro vi è l’idea del “campo”, invece che della rappresentazione. Che cosa vedono i bambini? Le caratteristiche macroscopiche sono che non guardano in maniera distaccata bensì con uno sguardo sensibile, caldo, non controllato, dettato dall’empatia con ciò che guardano, uno sguardo partecipativo, esperienziale, dall’interno cioè dell’esperienza, dell’evento.

  La serie più esplicita dell’opera di Ballo su questo punto è perfettamente intitolata Primo campo e riprende ravvicinatissimo il volto del “genitore”, anzi il suo mento e poco più, ma questa modalità Ballo se la porta con sé dall’inizio fino ad oggi, fino ai suoi ultimi cicli, che non rimandano più al bambino, così quello più recente su un viaggio in Grecia, pubblicato in Oracoli, santuari e altri prodigi (Humboldt 2016), che dice l’essere dentro il luogo fotografato: l’empatia è questo, sentirsi all’interno, farsi parte, e non staccati da ciò che allora sarebbe di fronte a noi, rappresentato appunto.

  La seconda caratteristica, che va naturalmente insieme a questa prima, è quella enunciata dal titolo del libro, che è titolo anche della serie più famosa, mi pare, dell’opera di Ballo, ovvero Con la coda dell’occhio, cioè la visione periferica. Questa è a sua volta almeno due cose: periferica nel senso che guarda ciò che è periferico, quindi il cui argomento, il cui soggetto è periferico. È già una scelta importante, anche questa dettata come si noterà dalla psicanalisi: guardare ciò che sta ai margini piuttosto che ciò che è esibito al centro, ciò che sfugge e sembra causale, che si insinua nel discorso-immagine invece che spacciarsi per contenuto manifesto. Ma periferica, la visione, anche nel senso che presta attenzione a ciò che appare alla periferia, ai lati, non al centro, del campo visivo. È quella che la psicanalisi, ancora, chiama “attenzione fluttuante”, l’attenzione appunto prestata ai dettagli, agli inciampi, alle denegazioni. Allora le inquadrature di Ballo sono ravvicinate, prese dal basso, come dall’altezza o dalla posizione di un bambino, sfocate ad hoc e in altri modi che restituiscano questa modalità.

Mettendo insieme queste due caratteristiche, per esempio Ballo ha fotografato dettagli di marciapiedi, con l’erbaccia che cresce negli anfratti, le zone periferiche della città, le file dei balconi degli edifici, gli angoli della casa, i dettagli del corpo, che diventa in seguito il periferico vorrei dire addirittura umano, gli emigrati che si trovano la domenica nei parchi pubblici…

  Ebbene, a me sembra che resti un problema che rende tutto questo, dicevo, tutt’altro che lineare, quasi un’applicazione, si sarà pensato, di intenzioni stabilite prima di scattare, di una “teoria”. A me sembra che in questa idea di accedere al preconscio, come specifica Ballo, alla periferia dello sguardo, di accedere al prima del linguaggio, ci sia un paradosso, paradosso enorme, che la fotografia esalta, amplifica. Voglio dire che la macchina fotografica è appunto una macchina e quindi che in realtà “vede” quello che c’è davanti – Baudelaire diceva che non può selezionare e Barthes che non ha linguaggio – e poi ci sono sì dei caratteri linguistici, come quelli elencati, però il centro resta sempre il centro, la macchina fotografica non ha “periferia”, non può guardare selettivamente ai lati. Che cosa succede dunque? Si tratta di una simulazione, di un “come se”?

  È proprio in questo paradosso che secondo me sta l’interesse dell’operazione di Ballo, che quindi sintetizzerei in questo modo: come è possibile che una macchina mi restituisca tutto questo che Ballo pretende? Come ci riesce, visto che ci riesce? La magia delle immagini di Ballo sta tutta qui. Dico magia perché davvero qui c’è qualcosa ai limiti della spiegazione, che fa dubitare di essere sotto l’incantamento del titolo o della spiegazione dell’artista, oppure, appunto, in qualche territorio ai limiti del linguaggio visivo. Come è possibile che una macchina restituisca uno sguardo? Eppure mettiamo una accanto all’altra immagini di soggetto simile di autori diversi, per esempio quelle dei balconi di Ballo accanto a quelle famose di Moholy-Nagy o di altri bauhausiani o costruttivisti, come Rodchenko, o altri ancora, o fatene voi stessi: la differenza si vede chiaramente. Come mai sono diverse? In che cosa? Come mai trovo in quelle di Ballo davvero quello che lei dice e non lo trovo negli altri? Allora la fotografia deve avere qualche cosa del linguaggio, se mi trasmette queste differenze. Esiste una grammatica, una sintassi anche del visivo, o qualcosa di simile, ma diverso.

  Io credo che Ballo, come non tantissimi artisti oggi, ponga delle domande, che sono un po’ sempre quelle ma sono anche sempre diverse, e sono importanti perché sono essenziali: che cos’è lo sguardo? Che cos’è l’immagine? Come fanno le immagini a essere diverse tra di loro? Chiudo il cerchio del mio discorso dicendo in questo modo: non si può rispondere a queste domande se non attraverso dei paradossi; cioè il linguaggio non è riducibile agli elementi linguistici, esiste una “periferia” del linguaggio stesso.

  Detto questo vorrei proseguire ricordando la prima volta che ho visto una mostra di Marina Ballo, per introdurre un altro argomento, anzi due. Si trattata di Conversazione, la sua prima installazione video. L’ho vista nella versione con quattro monitor disposti a cerchio, diciamo così, in modo che lo spettatore per vederli doveva mettersi in mezzo. Quando l’ho vista non sapevo chi fosse Marina Ballo, non conoscevo la sua opera, non avevo letto il comunicato stampa, era una pura visita in una galleria. I video mostravano inquadrature ravvicinatissime del petto di quattro persone, una per monitor, e il sonoro era costituito dal loro respiro. “Semplice”, come si suol dire, ma lampante. Quando mi sono trovato in mezzo, insomma, io sono rimasto molto colpito da questo poco così essenziale, da queste immagini al limite della non-immagine, e ho pensato: ecco delle immagini che respirano, ecco l’arte che respira, e io sono in mezzo a questa cosa… Ho pensato cioè: questa è un’idea di immagine, di arte; non ho pensato ai discorsi su psicanalisi eccetera.

  Voglio cioè spendere una parola sulle immagini in se stesse di Ballo, che sono alla fine delle immagini veramente particolari, originali e convincenti in se stesse. E anche qui direi che c’è un paradosso, perché lei dice che non persegue una ricerca estetica, una bellezza rispondente a delle regole o a dei modi, anzi che fa di tutto proprio per evitare qualsiasi effetto, qualsiasi ombra di compiacimento, di finalità estetica, se così posso dire. C’è un bellissimo capitolo nel libro che lo spiega, “Presentare non rappresentare”, e che riporta esempi di altri autori che per Ballo disegnano questa linea perfino storica, da Timothy O’Sullivan a Henri Le Seq, a Raoul Hausmann, a Michael Snow, a Lewis Baltz, a Chantal Akerman, a Gabriele Basilico e altri. Io stesso ne ho già parlato su questo sito integrandovi appunto Marina Ballo. È proprio questo modo, questo paradosso, che produce immagini particolari, cioè la particolarità di queste immagini.