Recensioni / Sulle ali del mito.

«Demone e mito» il carteggio degli Anni Sessanta tra Furio Jesi e Kerényi tra il giovane, prodigioso studioso e l’interlocutore di Mann, Hesse, Jung.
Nell’epistolario domina l’attenzione verso la cultura europea di fine Ottocento e inizio novecento, quella che oggi siamo abituati a identificare con l’etichetta di «cultura della crisi»: da Gorge a Nietzsche, da Rilke a Pound, da Broch a Heidegger, Wittgenstein, Canetti.

L’EPISTOLARIO

Nell'aprile del 1968, mentre spediva copia del suo libro Letteratura e mi­to, appena pubblicato dal l’editore Einaudi, Furio Jesi non prevedeva certo di suscitare nel suo destinatario, Kàroly Kerényi, quella dura reazione che avrebbe messo fine di colpo allo scambio epistolare iniziato quattro anni prima. L’anziano studioso del pensiero mitologico e della filosofia antica, autore di libri fondamentali sugli dei e gli eroi greci - lo splendido saggio su Hermes, in Mito e misteri (Bollati Boringhieri) o quello dedicato a Dioniso (Adelphi) -, interlocutore di Thomas Mann, Hermann Hesse e Carl Gustav Jung, riceve e legge con evidente disappunto il saggio che il giovane studioso ha dedicato a Cesare Pavese e al mito e lo accusa nella lettera di risposta di italo-comunismo: "Cosa direbbe Lei, se guardassi alla Sua attitudine a scrivere con “coscienza morale” come alla “mascheratura” di una prevenuta presa di partito? Non voglio farlo, giacché a Lei dovrebbe essere rimproverata al massimo un’eccessiva spontaneità. Al che Jesi, per nulla intimidito dal Maestro, replica che non vi è in lui alcuna mascheratura: “io svolgo funzioni pubbliche, palesi, nell’ambito del sindacato marxista (CGIL) dei lavoratori poligrafici e cartai, e in ogni discorso politico mi sono sempre espresso a favore del comunismo. Ciò non significa, naturalmente, che io accetti in ogni suo aspetto, la linea politica del partito comunista italiano o di quello russo’”. C’è nella risposta dello studioso torinese - l’ultima lettera dell’epistolario tra Jesi e Kerényi (Demone e mito. Carteggio 1964-1968, a cura di Magda Kerényi e Andrea Cavalletti, Quodlibet, pp.155, lire 24.000), datata 16 maggio 1968, come uno scatto d’orgoglio che trapassa in profezia nel rivolgersi all’uomo che egli ha considerato un Maestro sin dall’adolescenza: "cid significa che i tempi sono particolarmente oscuri. Dubito, d'altronde, che essi possano ri­schiararsi senza prima diventare ancora più oscuri: senza cioè che sia raggiunto il culmine della crisi. E probabilmente sarà una crisi che si dispiegherà nelle vie e si combatterà con le armi; una crisi in cui anche maestro e discepolo, e padre e figlio, si ritroveranno concretamente nemici, nell’una e nell’altra schiera. Vogliano gli uomini che un giorno la pace abbia eco “in noi e fuori di noi “’. Furio Jesi, nato a Torino nel 1941 - il padre era di origine ebraica -, è stata una delle più singolari figure della cultura italiana degli anni Sessanta e Settanta, un originale saggista e scrittore, e il breve ma importante epistolario con Keréyi lo conferma in pieno. Quando inizia il loro scambio di missive, Jesi ha solo ventiquattro anni. La sua carriera di studioso è a dir poco singolare: ha interrotto gli studi regolari subito dopo la prima liceo; ha esordito come egittologo a quindici anni con un contributo pubblicato in una rivista americana, poi ha pubblicato articoli sull’archeologia, la civiltà greca, tutti saggi d’argomento all’apparenza erudito ma che mostrano quello che è il tratto di fondo di questo inconsueto studioso: l’irrequietezza sposata alla maturità, che si rivela in una scrittura sempre densa, lontana da ogni accademismo, da ogni vuota erudizione, tesa a sondare “qualcosa” che sta al di là di ogni forma di sapere o disciplina. Non è dunque un caso che il settantenne studioso ungherese, uno dei padre nobili dello studio moderno del mito, anticomunista e liberale in politica, sappia riconoscere il talento di Jesi, la forza degli scritti che il giovane saggista torinese gli spedisce man mano che li pubblica. Gli anni che vanno dal 1964 al 1969 sono decisivi per Jesi. Lavora alla casa editrice Utet durante il giorno, e dopo le ore d’ufficio legge e scrive. Sta preparando alcuni dei libri più importanti della sua produzione che oscilla tra la scienza del mito e studi di germanistica. Non appartiene a nessuna delle due culture egemoniche del dopoguerra, “quella - cosiddetta - comunista e quella cattolica’”, come scrivono Giorgio Agamben e Andrea Cavalletti nella nota che apre il numero della rivista Cultura tedesca (Donzelli editore) a lui dedicata, che apparirà in dicembre a vent’anni dalla morte e che contiene diversi inediti, tra cui un breve epistolario con Italo Calvino. È un isolato, ma con alcuni importanti interlocutorui. Nel 1967 esce Germania segreta (ristampato da Feltrinelli nel 1995 con una nota di David Bidussa), mentre due anni dopo è la volta del suo libro più celebre, Letteratura e mito. Calvino lo stima al punto che nel 1966 gli ha affidato la prefazione de La bella estate di Pavese nella NUE, un testo importante che propone una nuova lettura dello scrittore. Negli stessi anni Jesi milita nel sindacato e scrive sulla rivista torinese “Resistenza. Giustizia e Libertà”, dove propone letture del colpo di stato dei colonnelli in Grecia, analizza la cultura di destra, ma anche interpreta i fermenti dell’autunno caldo. Si può dire che non vi sia lettore colto di quegli anni che non segua a Torino, ma anche a Milano e a Roma, i saggi che Jesi va scrivendo su “Comunità Il continente che Jesi va esplorando, e di cui si legge nell’epistolario con Kerényi, e quello che attraversa la cultura europea di fine Ottocento e inizio Novecento, quella cultura che oggi siamo abituati a identificare con l’etichetta di “cultura della crisi”: George, Nietzsche, T. Mann, Rilke, Pound, Broch, Hesse, Heidegger, Wittgenstein, Canetti. Questi autori, che hanno più o meno pericolosamente armeggiato con l’irrazionalismo, costituiscono il background della cultura italiana tra gli anni Trenta e Quaranta, quella che ha dato vita a case editrici come l’Einaudi e la Boringhieri, prima, e l’Adelphi, poi. La cultura che si è innestata con il marxismo critico di Ernesto de Martino, Franco Fortini, Cesare Cases, solo per fare alcuni nomi. Ebbene, Jesi, che appartiene alla generazione successiva (ha anche tradotto e presentato uno dei libri di Carlos Castaneda, L’isola dei tonal), si situa oltre questo spartiacque e immagina, attraverso i suoi saggi, un paesaggio intellettuale, ma anche esistenziale, che dialoga in modo diverso con la cultura dei Novecento. Per fare questo egli ha attraversato i temi del mito, patrimonio storico della cultura della destra, quella destra che è stata, nei primi decenni del Novecento, egemone in campo culturale, almeno fino all’esplosione della avanguardie artistiche e letterarie. Jesi gioca una grossa partita intellettuale, per questo dialoga con Kerényi, autore profondamente intriso - e qui sta il motivo della rottura - di quella “religione della morte” che tocca autori come Creuzer, Nietzsche, Froebenius e Rilke, ma anche Cesare Pavese. Jesi è scomparso prima di portare a termine un progetto assai originale, ma la partita da lui intrapresa resta ancora aperta. Per quanto la progressiva secolarizzazione e laicizzazione della cultura contemporanea sembra aver messo in un angolo i temi del mito e del sacro, quests due fenomeni sono rifioriti lontano dai luoghi deputati: nella musica, nelle droghe estatiche, nella paraletteratura, nelle fantasie new age, nelle tecniche del corpo, nelle filosofie pratiche dell’anima, in quella cultura di massa che è un grande calderone in cui bollono senza sosta molti ingredienti che solo settant’anni fa appartenevano all’“alta cultura” o alle esperienze di piccoli gruppi elitari. La “macchina mitologica”, come la definiva Jesi con una formula innovativa tutta da riprendere, continua a funzionare anche in assenza dei miti tradizionali. Per questo, e per altro ancora, il suo lavoro di saggista e studioso è ancora di grande attualità.