Nel suo saggio “A che ora si mangia?” lo storico Alessandro Barbero ripercorre le abitudini alimentari dei secoli passati. Scopriamo così che il “quando” ci sediamo a tavola è un fattore che cambia sulla base delle diverse culture e delle diverse classi sociali. E che a fare da spartiacque, anche in questo campo, è stata la Rivoluzione francese
“A che ora si mangia?” si chiede lo storico Alessandro Barbero reduce da una esplorazione tra usi e costumi europei e americani dei secoli passati. La risposta non è affatto scontata perché il rito del pranzo muta nel tempo specie per le classi abbienti che ne fanno un’occasione mondana e per questo si prolunga addirittura per tre o quattro ore. È la Rivoluzione francese a segnare uno spartiacque: comunque Francia e Inghilterra se la battono nel ritardare quanto più è possibile il pranzo. Così, se nel XVIII secolo il re d’Inghilterra pranzava alle tre e i suoi ministri alle quattro, il filosofo e giurista Jeremy Bentham nel 1793 invitava a pranzo per le cinque. Madame Pariset in un manuale di economia domestica pubblicato nel 1821 notava che a Parigi ogni giorno si pranzava più tardi: trent’anni fa, scrive, si andava a tavola alle quattro, ora ci si va alle cinque, ma spesso anche alle sei o alle sette. Tra le cause potrebbe esservi il mutamento degli orari d’ufficio: a Parigi, all’epoca della Rivoluzione si pranzava alle due e gli impiegati lavoravano dalle nove alle dodici e poi dalle tre alle nove, ma una riforma introdusse l’orario unico dalle nove alle quattro, costringendo a un cambio di abitudini.
Comunque gli inglesi tendevano a pranzare più tardi di quanto avvenisse nel continente e questo ci dice che a parte reali esigenze che hanno pure il loro peso, c’è una specie di gara a chi è più snob. Lo spostamento del pranzo finisce con l’uccidere la cena e dunque si faceva una colazione leggera appena svegli e poi un déjeuner à la fourchette alle undici o a mezzogiorno. Restava agli inglesi il tè alle cinque e restava l’abitudine di mangiare qualcosa se la serata, tra teatro e gioco, si protraeva molto nella notte.
Barbero nel suo piccolo libro pubblicato da Quodlibet offre una esemplificazione molto vasta. In casa Manzoni si pranzava alle cinque. Non era il solo. In una guida collettiva pubblicata nel 1881, Milano e i suoi dintorni, cui collaborarono tra gli altri anche Cesare Correnti ed Emilio De Marchi, trovo un capitolo dedicato a quello che succede in città di giorno e di notte. Alle ore undici c’è scritto: Milano è tutta fuori: manca la parte elegante che ha finito la toeletta e sta facendo colazione. E al punto “Dalle cinque e mezza alle sette” si legge: “In istrada si veggono soltanto coloro i quali non hanno una tavola sotto cui tenere le gambe”. Nella Fiera delle vanità di Thackeray, annota l’autore, c’è un personaggio che quando è sul continente pranza alle due e mezza, ma in patria va a tavola alle sei e mezza. A forza di spostare il pranzo verso l’ora di cena si ottiene una sorta di rivoluzione completa degli orari fino a tornare agli orari di una volta e questo lascia il segno soprattutto da un punto di vista linguistico. Da noi la parola “pranzo” indica sia il pasto di mezzogiorno, in opposizione a cena, sia il pasto serale, specie quello più formale con invitati, a casa o al ristorante. Il termine colazione è rimasto in uso solo in Italia con la distinzione di prima colazione e seconda colazione. Ma seconda colazione non lo dice più nessuno e dunque colazione vale pranzo di mezzogiorno. Gli inglesi hanno inventato il lunch per supplire al pranzo (dinner) ormai spostato verso l’ora di cena, mentre il breakfast diventa la loro colazione di primo mattino.
Naturalmente l’ora del risveglio non è uguale per tutti. Nel Giorno di Giuseppe Panini il Giovin Signore rincasa quando servi e operai si alzano e si recano al lavoro. Il libro di Barbero mi ha fatto tornare in mente il nostro celebre poema settecentesco perché vi si parla del pranzo dei nobili, ma anche della “ignuda, atroce folla” che, radunata nei dintorni del palazzo, beve letteralmente con i profumi che le arrivano “del divin prandio il néttare”, ma senza osare avvicinarsi troppo alla soglia per non turbare i riti della nobile gente in cerca del Piacere. E pensare, scrive più o meno Panini senza crederci troppo, che una volta gli uomini erano tutti uguali. Oggi le distanze sociali sono spesso abissali anche se tutti hanno nelle società democratiche, almeno in teoria, gli stessi diritti.