Recensioni / Come rimanere uomini nel mondo “smoralizzato”

È possibile, quando sembra che si sia perso il significato dell’umano, continuare a essere “uomini”? Questa è la domanda principale del libro di Eugenzio Mazzarella.

Se volessi riassumere in una sola questione il percorso, ben più articolato e complesso, che Eugenio Mazzarella ci offre nel suo ultimo libro (L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo, edizioni Quodlibet), sceglierei questa: al fondo di un mondo sempre più in crisi di identità e di senso, sia a livello personale che sociale, non possiamo più accontentarci di analisi, teorie e affabulazioni che girino attorno al problema, perché in gioco è la nostra stessa esperienza di esseri umani. L’esperienza, infatti, consiste nell’esercizio della nostra più intima “natura” (se ha ancora un significato questa locuzione), e in quanto tale non è mai data una volta per tutte. La sua legge è l’accadere, giacché noi non “siamo” semplicemente “quello che siamo” – come tutti gli altri enti presenti nel mondo –, ma siamo dati, cioè proveniamo da “altro” e insieme perveniamo a noi stessi, cioè abbiamo sempre da conquistare il nostro essere.

Con altri termini potremmo dire che la nostra natura non si realizza mai solo “svolgendosi” tra un inizio e una fine, ma ha il ritmo permanente del cominciare: noi abbiamo un’origine che non ci lasciamo mai semplicemente alle spalle, nel passato, ma che emerge, agisce, ci muove in ogni momento presente. In ogni atto della nostra intelligenza e in ogni mossa della nostra volontà; nell’esercizio della ragione e nel rischio della libertà. E tutto il problema della coscienza di noi stessi e del mondo, come tutto il problema della cultura di un’epoca, sta nel riconoscere o nel trascurare questo avvio permanente del nostro essere come “umani”.

Di qui emerge la domanda principale di questo libro: è possibile, in un momento in cui ci sembra che un’intera cultura abbia perso l’evidenza del significato e del fine dell’umano, continuare a essere “uomini”? Qui si apre la grande alternativa, se cioè valga la pena, e più radicalmente se sia possibile rimanere quello che gli esseri umani sono stati per i millenni della storia occidentale, greca, cristiana e moderna; o se è arrivato (finalmente o purtroppo!) il tempo in cui ciascuno può “individuare” e “realizzare” liberamente se stesso, come gli pare: e cioè secondo le possibilità che la cultura, la tecnica e la politica gli forniscono.

Per dirla nelle categorie teorizzate da Ulrich Beck, il grande sociologo tedesco scomparso nel 2015, nella lunga marcia dell’epoca moderna noi siamo “diventati” puri individui, intesi come soggetti di diritti: nel compimento postmoderno del processo di individualizzazione proprio alla modernità siamo tutti “figli della libertà”, perché tutti miriamo alla realizzazione e alla riuscita di una “vita propria”, pagata ogni volta però al prezzo salato di un affrancamento da ogni “strutturale legame sociale”. In altri termini, il nesso sociale, l’appartenenza costitutiva su basi biologiche e culturali (naturali, parentali, affettive, tradizionali, comunitarie, ecc.) non è più vissuto come una dimensione originante la condizione dell’individuo, quanto piuttosto come un fattore da cui liberarsi. Ma questo porta con sé inevitabilmente una “perdita delle sicurezze tradizionali” riguardo alle norme-guida della nostra conoscenza pratica e insieme, altrettanto necessariamente, a una riprogrammazione dell’integrazione sociale, attraverso il controllo diffuso operato dalla tecnica e dal mercato.

Siamo liberi di programmare la nostra individualità, tendenzialmente come dei punti-zero senza memoria di un’origine irriducibile; ma al tempo stesso – ecco il paradosso – siamo antropologicamente predeterminati dalle leggi del mercato come unico indirizzo o orientamento per decidere della nostra consistenza e dello standard della nostra “riuscita”: “pura meccanica associativa […] di costumi individuali atomizzati” (p. 29). Il problema è completamente aperto riguardo agli esiti possibili: il che però non vuol dire che non abbiamo criteri per giudicare; al contrario, Mazzarella punta proprio sul fatto che l’incertezza e la precarietà della “condizione umana” ci costringono a non dare più per scontati e a verificare nuovamente quei criteri – non al di là, ma attraverso l’esperienza della crisi.

Il vero rischio incompreso nelle più acute teorie sociologiche (ancora Beck e poi senz’altro Zygmunt Bauman) è il riconoscimento di una vera e propria “smoralizzazione del mondo”. Con questa categoria Mazzarella vuole misurarsi con il “nichilismo” etico di cui parlava Nietzsche alla fine del XIX secolo, visto però nel suo pieno compimento nel XXI secolo. Qui non si tratta appena di una perdita degli antichi valori, intesi come costruzioni della tradizione platonico-cristiana e della società borghese, ma della perdita di quella dimensione generativa della “socialità” e della “comunione” che istituisce ogni natura umana come un soggetto cosciente. Nei termini dell’antropologia culturale, si parla di quella dimensione che ha fatto sì – e continua a far sì – che l’anthropos naturale divenga homo sapiens. Si tratta di quel punto delicatissimo e insieme decisivo in cui la natura diviene cultura, il bios accede all’ethos, sia nel senso che il soggetto umano è capace di comportarsi e di agire riflessivamente, sia nel senso – ancora più originario – che esso abita un mondo, nel quale viene accolto e curato nel rapporto con “altri” (i suoi “cari”).

Quello che più colpisce nel discorso di Mazzarella è innanzitutto il tono con cui si parla della natura umana, appunto perché non ci si limita a considerarla (secondo la tradizione) come un semplice “presupposto” che ci vincola nel bene o nel male e a cui dobbiamo semplicemente obbedire, “perché è così - e basta”; ma d’altra parte non ci si rassegna affatto a intenderla, secondo lo spirito del tempo, come una realtà che possiamo decidere in base alla nostra potenza e ai nostri desideri (manipolazione genetica, ridefinizione non naturalistica del “genere”, precarietà della famiglia eterosessuale, programmazione artificiale della generazione del figlio sganciata per principio dal legame di parentela esogamico…). Piuttosto, è nello strato profondo della “natura” umana, ben prima che nelle conseguenze di comportamento morale, che va rintracciato il filo del criterio per giudicare se è possibile, e se vale la pena, restare uomini.

In fondo questo corrisponde alla stessa concezione di “filosofia” proposta dall’autore, in cui egli si accompagna liberamente e anche criticamente a riferimenti decisivi del pensiero contemporaneo, da Darwin a Heidegger, da Lévi-Strauss a Merleau-Ponty, da Benveniste a Plessner sino, e non ultimo, a Philip Dick, l’amato scrittore di fantascienza, considerato egli stesso come l’esperimento di un “androide”. La filosofia è “una pratica di resistenza del pensiero”, che tenta di dire come “stare nel pensiero” (p. 7). La vita egli esseri umani, infatti, è un nesso indistricabile di natura e pensiero, in senso però decisamente non intellettualistico, ma come lo stare al mondo in maniera cosciente e riflessiva. E la filosofia, oggi, deve (o più cautamente: può) aiutarci a capire quali legami siano ancora possibili nell’epoca della dissoluzione della modernità. E dunque, “in uno scenario di neutralizzazione biopolitica, attraverso la tecnica, dell’implicito comunitario” (pp. 48-49) che abita gli esseri umani sin dalla loro base biologica e sessuata, e arriva sino alla concezione mediata dall’elaborazione della cultura – come resistere? Il rischio da evitare, certo, è quello di finire semplicemente in un conservatorismo di ritorno. Ma il rischio più acceso è un altro: difendersi dal pericolo che l’essere umano, una volta “individualizzatosi” completamente, perda proprio la sua individualità irriducibile, cioè comunionale.

Tra le diverse piste di lavoro di questo libro ne scelgo anche qui solo una, forse più nascosta delle altre, ma a mio parere essenziale: dopo aver ripetuto in diverse occasioni che il pericolo è quello di far dipendere la natura umana da ciò che essa di volta in volta desidera fare di se stessa (la trappola di un desiderio vissuto come auto-creazione faustiana), a un certo punto del libro Mazzarella ribalta la questione, e parla di una “pulsione alla persona, cioè alla relazionalità dell’esistenza” e di una “struttura originaria del desiderio” che è “innata nell’individuo” (p. 62). Ciascuno infatti cerca “quanto può soddisfare i suoi bisogni fisici e spirituali”, ma questo “quanto” può essere solo un “chi”. E questo non è evidente solo nel bisogno che tutti abbiamo di uno sguardo amoroso – come quello della madre e del padre –, ma anche nel nostro stesso modo di parlare. La vera e propria “prima persona” delle nostre locuzioni grammaticali, quella che designiamo come “io”, in realtà (come hanno visto i grammatici indiani, più che quelli greci e latini) è quella che chiamiamo la “terza persona”, mentre la nostra “prima persona” è in fondo l’“ultima persona”, quella che viene dopo, attraverso e grazie al suo appartenere e al suo essere insediata in una struttura relazionale. L’“io” non è mai un punto-zero, che contrappone a sé un “tu”, perché l’io/tu non è mai la somma o la dialettica di due soggettività astratte, ma lo spazio in cui si inflette e si realizza ogni volta una relazione che è più grande della pura soggettività, e di cui ogni soggetto vive e respira.

La natura umana accade, cioè si genera di continuo solo grazie alla relazione che la precede e che ciascuno è chiamato a generare a sua volta. Questa socialità originaria – insieme naturale e culturale, biologica e morale – è la sua propria dimora. Rimanere esseri umani significa stare, o meglio ritornare continuamente in questa casa. Solo in essa la potenza tecnica può essere trattenuta dal divenire una trappola che ci fagocita; e la stessa politica può essere esercitata come un’amicizia possibile.