Recensioni / Heidegger cerca il senso di una vita non anonima

Un corso di lezioni tenute nel 1919/20 dopo la lacerazione prodotta dalla guerra

Si è di recente molto discusso di Heidegger alla luce dei funesti Quaderni neri e della sua adesione al nazionalsocialismo. Si tratta di un episodio quanto mai inquietante che ha messo in questione il significato di tutto il pensiero heideggeriano. Indubbiamente, imputando agli Ebrei l’«oblio dell’essere», l’abbandono dell’originario, Heidegger compie una mossa oltremodo funesta. Vi è da chiedersi perché mai egli sia arrivato a tanto, perché il pensatore che in Essere e tempo affigge lo sguardo sulla «gettatezza» dell’esistenza consegnata alla banalità quotidiana, all’anonimità del «si», reagisca poi in modo così radicale a questa drammatica dispersione. Le ragioni non erano solo politiche ma anche, e largamente, speculative. Il terreno di coltura di un percorso che si inoltra in un cupo vicolo cieco ha in realtà un inizio precoce come ci testimonia un corso giovanile tenuto da Heidegger risalente all’epoca in cui era Privatdozent presso l’università di Freiburg ora edito da Quodlibet. Si tratta di Problemi fondamentali della fenomenologia (1919/20) comparso in italiano a cura di Ferdinando G. Menga.
Problemi fondamentali della fenomenologia è un corso di lezioni che Heidegger tenne nel semestre invernale 1919/20 nelle quali si addentra su di un terreno quanto mai scivoloso, quello della vita, un tema molto diffuso nella filosofia dell’epoca in un panorama che va dal giovane Lukács, per venire a Simmel, a Bergson a William James, e a Heidegger stesso.
Il disagio profondo che segue agli anni della prima guerra mondiale si avverte distintamente sullo sfondo di queste lezioni. Qui Heidegger tenta una mossa radicale com’è proprio del suo stile filosofico. Egli vuole ricondurre la vita quotidiana, lacerata e confusa, agli archetipi. Intende così sottrarre l’esistenza alla sua anonimità. La visione husserliana delle essenze assume in queste pagine, sia pure tacitamente, un drammatico accento esistenziale. L’atteggiamento metodico e descrittivo di Husserl nei confronti dei «vissuti psichici» risulta insufficiente per cogliere la natura vera dei problemi in campo. Lo sguardo neutrale di Husserl va approfondito agli occhi di Heidegger. Non è qui in questione, nel confronto tra i due, la distinzione tra razionalismo e irrazionalismo che Heidegger, sulla scia di Husserl, avversa in modo radicale. Si tratta piuttosto di far riemergere il nesso essenziale che tutto congiunge, l’anello che tutto stringe intorno a sé donando senso alla vita. Qui sta il vero problema che a Heidegger è ben chiaro, anche se ancora non ne ha intravvisto la soluzione. Il problema della vita è che essa è immersa in una totale immanenza, si avvita su se stessa. Dunque non è in grado di levare lo sguardo al di là di sé, resta irretita nelle sue oscillazioni e nelle sue abitudini. La vita è prigioniera di sé medesima. E questo accentua la sua drammaticità.
Emerge in questo contesto la questione del senso che non può essere determinato dallo sguardo oggettivante e metodico della scienza che pure scaturisce da un’originaria collocazione in un determinato mondo-ambiente, dunque da interrogativi fondamentali circa l’esistenza che declinano tuttavia in un mero «mondo delle cose». Questo corrisponde a un reificante sguardo di Medusa che fa scomparire l’humus, l’elemento vitale che nutre l’interrogazione scientifica. La scienza divide e notomizza ciò che cade sotto il suo sguardo e dunque essa non può costituire una risposta, in forza del suo metodo astratto, alla incompiutezza dell’esperienza soggettiva. L’esperienza speculativa deve muovere, secondo Heidegger, in direzione della ricerca del senso che non coincide con un’esperienza formalizzata dell’oggetto. Il mondo estraniato prodotto dalla scienza-tecnica induce una richiesta suppletiva di senso che non può essere determinata dall’interno di quel sistema scientifico-tecnologico che ha determinato un’assenza di auto-riconoscimento e dunque un’alienazione degli individui rispetto al significato delle proprie vite. L’interrogazione intorno all’archetipo che si sottrae all’immanenza del vivente può proporsi in questo contesto, e così avverrà, anche come un interrogativo che riguarda la politica in senso essenziale e le politiche concrete nella forma di una proposta di una comunità vivente e aggregata. La domanda circa la possibilità di stabilizzare il senso non potrà così che degenerare producendo una risposta e un esito funesti: la dittatura del senso che viene dall’alto il quale vuole imporsi sulla fluidità dell’esistenza coartandola, collettivizzandola forzosamente.