Recensioni / La vita coniugale e la strategia del millepiedi. Conversazione con Ivan Levrini

Elisabetta Menetti | Swift (A Tale of a Tub, 1704) ha scritto che esiste una corda particolare nell’armonia dell’intelletto umano che in parecchi individui dà lo stesso suono. La destrezza è accordarsi a quel suono e vibrare alla stessa tonalità dell’altro: se si trova questa segreta tonalità, allora è possibile suonare la stessa musica. Ma se non accade allora ci sono stonature insopportabili, vibrazioni orribili, lotte e litigi con l’armonia che si vorrebbe inseguire. Il passo che cito è tratto dalla prima traduzione di Gianni Celati, che aveva riscoperto questa surreale opera sui segreti della vita quando studiava a Londra nei suoi primi anni di giovane ricercatore universitario. Un’opera che è centrale per tutti gli amici di Celati che hanno ritrovato in quelle parole, lette e pensate più volte, una comune condizione dell’esistenza.
In Vita coniugale (Macerata, Quodlibet, 2017) marito e moglie, nelle diverse configurazioni dei racconti, si trovano alle prese con questo segreto dell’armonia, della tonalità della vibrazione. Nel racconto Il planisfero questa vibrazione è seriamente in pericolo, come d’altronde anche nel racconto La volta stellata. In entrambi i casi si tratta di una lotta alla ricerca dell’armonia, quando le vibrazioni di uno non vanno con quelle dell’altra. La vita coniugale dipende da questo ‘accordamento’, come dice Swift?

Ivan Levrini | In effetti Gianni Celati ha insistito a lungo sul tema dell’accordamento. Ne parlava spesso durante gli incontri che si tenevano al San Carlo di Modena, dai quali ha preso avvio la rivista «Il Semplice». Un tema che s’impone sempre nei rapporti umani, anche in relazioni a bassa intensità, forse ogni volta che si scambiano parole. Prendiamo il caso dell’insegnamento. Chi è del mestiere, entrando in un’aula, sa bene che servono alcuni preliminari, alcune mosse verbali destinate a predisporre chi è in ascolto e favorire un’intonazione comune.

Ma la ricerca di un accordamento non è facile. A volte è un’impresa ardua e l’analogia con le note musicali esprime più che altro una speranza, anche perché la musica si offre all’udito in modo diretto, mentre non altrettanto succede con le parole. La musica è immediata, funziona attraverso un linguaggio universale, dice Schopenhauer. Questo dipende dal fatto che l’orecchio umano ha una competenza spontanea nel cogliere melodie o armonie, e reagisce prontamente in caso di stonature o dissonanze. Per non parlare del fatto che le note non rimandano a dei significati: una nota significa solo se stessa, anche se poi una sequenza di note induce a costruire relazioni fra i vari oggetti sonori. Ma questo sarebbe tutto un altro discorso.

Invece le parole ci costringono a una forma comunicativa più complicata. Risuonano anch’esse, ma sono dotate di significato, il che complica le cose perché non siamo mai sicuri di quello che provochiamo nell’ascoltatore. Tra chi parla e chi ascolta si produce quel fenomeno che Enzo Melandri definiva ‘scatenamento’ del significato, il quale è all’origine del fraintendimento fra i parlanti. Spesso due persone che parlano credono di conversare, invece si tratta un monologo a due. Succede spesso fra marito e moglie. Il fraintendimento è un elemento costitutivo della comunicazione e non a caso molte difficoltà coniugali nascono da malintesi. Più che imputarsi la colpa l’un l’altro, i coniugi farebbero meglio a incolpare il linguaggio, che è equivoco per sua natura.

E.M. | Ma allora diventa impossibile raggiungere pienamente l’accordamento di cui si sta parlando.

I.L. | Non è detto. In alcuni casi l’equivocità è riducibile all’osso. Ad esempio, se dal salumiere si ordina della mortadella è ragionevole non aspettarsi salame o prosciutto. Qui basta poco per accordarsi, anche solo indicare la mortadella e aggiungere qualche parola specificando la quantità desiderata, che è sempre una garanzia su come intendersi, è la forza dei numeri. E a scanso di equivoci c’è la bilancia elettronica, non più la vecchia stadera. Fra salumiere e cliente è abbastanza facile vibrare sulla stessa lunghezza d’onda, benché naturalmente il salumiere possa sempre tirare l’acqua al suo mulino e tagliare due fette in più, cosa che non comporta molte complicazioni. Difficilmente sorge un conflitto per due fette di mortadella, e non degenera mai in forme cruente. È nel rapporto coniugale che la degenerazione raggiunge forme sanguinose. Non bisognerebbe mai dimenticare che l’effetto di chi parla su chi ascolta, tra marito e moglie assume complicazioni imprevedibili. Soprattutto se la relazione è avviata da molto tempo.

All’inizio, nella fase aurorale, si ha fiducia nella sintonia, in un accordamento immediato, e ci si mostra benevolenti, cioè ci si sforza per andare incontro a quello che intende l’altro senza bisogno di continui chiarimenti. E poi in questa fase si fa sentire uno stato d’animo pre-verbale, fatto di aspettative sessuali, che favoriscono l’indulgenza. Invece, quando la relazione è avanzata e tali aspettative svaniscono, se si scopre che anche la sintonia era fasulla, è facile impantanarsi nel gorgo dei chiarimenti, in discorsi estenuanti volti alla ricerca di continue spiegazioni. «Io volevo dire...», «No, tu hai detto...», «Sì, ho detto, ma intendevo...”. Brutto segno, se la relazione prende questa piega.

Forse in ogni relazione umana c’è una banda di oscillazione che per rimanere al caso dei rapporti fra uomo e donna si snoda tra la vibrazione all’unisono, come succede nella fase dell’innamoramento, e la totale dissonanza, che prelude al crollo, da augurarsi, naturalmente, nella forma civile della separazione consensuale.

Però vorrei anche aggiungere un’altra cosa: un accordo duraturo, totale, costante, senza che mai intervenga una qualche tensione, può assumere il grigiore della noia, e allora ben venga un po’ di cigolio, qualche nota aspra e dissonante. E qui ci sarebbe un’altra analogia con ciò che succede in campo musicale, perché sotto il profilo armonico, una consonanza che durasse a lungo sarebbe molesta. Verrebbe da dormire. Viceversa l’intervento di qualche dissonanza consente lo scorrimento di una tensione e genera attesa. Un accordo di triade maggiore, ma col do diesis anziché il do naturale, produce una disarmonia che pone chi ascolta in attesa di una distensione. Proprio come succede in molti rapporti sentimentali: a volte traggono alimento dalle difficoltà, purché superabili.

Per tornare ai due racconti che hai citato prima, Il planisfero e La volta stellata, i protagonisti sentono che manca una vibrazione all’unisono, soprattutto nella Volta stellata, ma la dissonanza che avvertono non è distruttiva e genera piuttosto una corrente che scorrendo prelude alla consonanza del finale. È come se marito e moglie ingaggiassero una lotta alla ricerca dell’armonia, una lotta che tiene vivo il rapporto coniugale.

E.M. | La tua prosa è musicale e cerca sempre di farsi sentire all’orecchio interno di ciascun lettore che sente e percepisce una tonalità alla quale si affida, come in una danza. La tua musica trascina la mente altrove, con una capacità straordinaria di incantare con cose semplici. Questa musica fa immaginare il mondo quotidiano sotto altri aspetti, ben diversi dalla realtà che si racconta.

Nel racconto A Beatrice un’avventura stralunata conduce in un mondo di affetti che va oltre lo squallore che si ha paura di percepire: una donna al servizio del fratello disabile ed il fidanzato al servizio di un padre demente. La musica delle parole salva dalla paura della vita?

I.L. | Le parole possono produrre incantesimi che addolciscono le amarezze della vita, ma naturalmente possono anche generare incubi. È la potenza della parola, che conoscevano bene i sofisti. I coniugi, nei corsi prematrimoniali, dovrebbero leggersi i testi di Gorgia, dove dice che la parola fa commuovere e ridere, fa odiare e innamorare.

L’effetto di cui parli, cioè che la prosa di questi racconti raggiunga l’orecchio interno e trascini altrove la mente del lettore, mi fa molto piacere perché ho prestato un’attenzione maniacale alle risonanze e al ritmo della lingua. Occorre molta fatica per raggiungere una sensibilità linguistica, e non c’è nessun manuale che possa aiutare. Io sono stato messo su questa strada proprio dagli incontri del «Semplice», dalle letture che si facevano ad alta voce, sotto la guida di Celati e Cavazzoni, e poi devo molto alle lunghe conversazioni con Daniele Benati, che ha una percezione straordinaria per la musicalità della lingua, come si avverte sia dalla sua narrativa che dall’opera di traduttore.

Dici poi che i racconti di Vita coniugale riescono a far immaginare il mondo in modi diversi rispetto allo squallore di certe situazioni. Io credo che questo dipenda da come agisce la facoltà immaginativa. Mi spiego meglio: da un lato ci può essere un contesto anche squallido, o triste, ma c’è poi sempre la possibilità di cambiare lo sguardo. Nella nostra cultura un tale cambiamento è stato favorito da una svolta culturale del pensiero cha ha portato l’accento sul soggetto: quando diciamo che vediamo il cielo, è sempre un particolare tipo di occhio chealza lo sguardo al cielo.

Inoltre, la forza del racconto agisce sull’immaginazione: proprio questo è uno degli effetti straordinari prodotti dal linguaggio. Immaginiamo un uomo seduto nel chiuso di una stanza, magari nella penombra rischiarata da una luce artificiale. Inizia a leggere e intanto i cinque sensi continuano a percepire i contorni della situazione fisica in cui si trova. È collocato in rapporti spazio-temporali che non cambiano, è sempre lì seduto. Ma piano piano, leggendo, inizia a spostarsi, inizia una specie di evasione. Esce dalla realtà percepita e va altrove. Allo sfondo reale della stanza si sostituiscono le scene immaginate, che acquistano una consistenza anche più reale della realtà effettiva. Grazie al racconto viene oltrepassata l’immediatezza sensoriale. Si percepisce qualcosa di non visibile. Non è questa la radice di ogni trascendenza? Nella combinazione di linguaggio e immaginazione?

Le narrazioni, quando agiscono in questo modo, lasciano stupefatti e la letteratura può diventare una droga. Io ci sono caduto in pieno in questa forma di tossicodipendenza, com’è successo ad altri miei amici, i quali hanno speso anche loro delle fortune in libri. Una droga che però non danneggia i neuroni, a patto che non se ne faccia un abuso scriteriato, come successo a Don Chisciotte, che a furia di leggere è diventato pazzo.

Vorrei riprendere un’altra cosa di Beatrice, la protagonista dell’omonimo racconto, una figura femminile che a me piace moltissimo. Il racconto è scritto in prima persona e chi parla è il fidanzato, legato a lei da un profondo sentimento amoroso. Per esprimerlo non sono usate espressioni convenzionali ma il forte legame fra i due protagonisti del racconto è dovuto anche al fatto che condividono un comune spazio immaginativo.

Questo naturalmente non elimina i lati terribili in cui si presenta la loro vita, la demenza di un padre che ha perso la capacità di usare le parole, e il caso del fratello nato con una menomazione che lo ha privato della parola fin dall’inizio della vita. Eppure c’è uno spazio in cui sia il padre che il fratello possono godere di qualcosa. Il godimento del fratello, ad esempio, si genera quando è catturato dalla melodia della musica, o dall’immediatezza del rapporto tattile col corpo femminile. Situazioni che Beatrice e il fidanzato favoriscono ricorrendo all’immaginazione, che permette loro di ossigenare un’esistenza altrimenti asfittica. Si sa che la mancanza di ossigeno nel cervello provoca delle alterazioni alla vista, ad esempio una percezione errata dei colori o un restringimento del campo visivo. Allo stesso modo la mancanza d’immaginazione riduce lo spazio del godimento. Forse chi legge questo racconto avverte in modo quasi sensoriale cosa intendo dire. Ma adesso basta con l’esercizio critico, anche perché nello scrivere io mi tengo alla larga da un eccesso di consapevolezza. Occorre in altri momenti della vita, non quando si scrive.

E.M. | Invece vorrei rimanere ancora un momento su questo punto. Enzo Melandri spiegava che la riflessione è il sintomo che le nostre capacità intuitive e intellettive non riescono a bastare più a se stesse. Diceva di abbandonare questa idea della consapevolezza ma di lasciarsi andare ad una catena di associazioni per analogie. Ed è il segreto dei tuoi racconti che trascinano la mente secondo un procedimento analogico che alla fine porta ad una scoperta del quotidiano. L’esempio che faceva Melandri era quello del millepiedi, il quale inciamperebbe di sicuro se dovesse riflettere su come si muovono le sue zampe. La tua è una strategia del millepiedi?

I.L. | Tutti ci serviamo dell’analogia, che non è riducibile a procedure logiche o dialettiche. Però a volte si producono analogie zoppicanti e questo comporta dei rischi. In ogni caso l’analogia consente di generare nuove scoperte o far vedere le cose in una luce diversa. Favorisce l’immaginazione. E poi smuove la curiosità, perché con appropriati passaggi si rapportano fra loro relazioni e ambiti estremamente diversi. Si può vedere l’inconsueto nel quotidiano oppure far rientrare lo straordinario nell’ordinario, come succede in alcuni racconti di Vita coniugale, in cui le pene della vita di relazione sono ricondotte all’impulso riproduttivo che guida maschio e femmina di ogni specie vivente. E questo produce un effetto distensivo, a volte comico, perché togliendo l’amore dal piedistallo romantico, le fatiche amorose sono visibili in chiave etologica, il che ne stempera il dramma.

Riguardo alla strategia del millepiedi, Melandri diceva che, finché è possibile, sarebbe meglio non porsi troppe domande. Le storielle si sprecano. A me piace questa variante: un tale, fino allora soddisfatto della vita, un giorno si chiede se per caso la vita non abbia delle norme proprie. C’è qualcosa che regola a vita? È questo che vuol sapere. Una domanda apparentemente innocua, ma in realtà nefasta, e infatti, da lì in poi, in lui svanisce ogni contentezza, com’è successo a quel millepiedi al quale uno scarafaggio ha chiesto come facesse a muovere le numerose zampette con tanta eleganza e armonia. Evidentemente era uno scarafaggio invidioso perché da quel momento il millepiedi, avendo cominciato a pensarci, non è più riuscito camminare.

Melandri diceva che la presa di coscienza non andrebbe esaltata, e che semmai è il sintomo di una disfunzione. In fondo ci accorgiamo di avere uno stomaco solo quando non funziona a dovere, ma se digeriamo senza difficoltà non ci viene nemmeno in mente lo stomaco. Questa è una linea di pensiero che risale almeno a Plotino: quando l’intelligenza ha bisogno di riflettere su se stessa significa che non è autosufficiente. Vale anche per l’arte: la riflessione interviene quando gli artisti sono incerti, ma se non c’è nessun ostacolo l’arte domina e crea.

In fondo è la stessa cosa che succede agli esordi di un rapporto amoroso: se la cosa fila, se va avanti in uno stato di grazia, non c’è bisogno di tanti chiarimenti. In una relazione appena avviata non si perde tempo in discorsi estenuanti su cosa si intende dire, sarebbe segno che si parte col piede sbagliato.

Qualche tempo fa, un amico, mentre mi raccontava della sua relazione con una donna poi uscita dalla sua vita, diceva che quando lei proponeva qualcosa lui era subito d’accordo. «Va bene», le diceva, «va benissimo». Con lei gli veniva spontaneo. Accettava di tutto. Era come se lui per primo desiderasse quello che proponeva lei. Partivano per una meta e a metà viaggio lei cambiava idea? Proponeva una deviazione? In altri casi si sarebbe imbestialito, invece in compagnia di questa donna il cambio di programma andava benissimo. Una volta erano in viaggio sull’autostrada. Era un fine settimana e si era formata una lunga coda. Tutto d’un tratto lei gli propone di tornate indietro per starsene chiusi in casa, a letto, a mangiare e bere, a fare tutto quello che si poteva fare a letto. Quei due giorni sono stati i più belli della sua vita, mi ha detto.

E.M. | L’umanità riflessa nella famiglia, i figli, i padri, le madri, i fratelli sono tutti personaggi di un piccolo grande coro che racconta la vita quotidiana che si vive nei piccoli paesi di Reggio Emilia. Si è detto che sembra di leggere i racconti di certi americani che descrivono i piccoli paesi dimenticati con i loro personaggi, altrettanto dimenticati. I piccoli paesi e le strade che li uniscono sono il riflesso del nostro mondo interiore?

I.L. | A me piace molto una scrittrice americana di nome Flannery O’Connor, morta a quarant’un anni per una forma di lupus eritematoso, una malattia ereditaria che aveva colpito anche il padre. Nei suoi racconti ci sono posti sperduti nelle campagne del Sud degli Stati Uniti, luoghi in apparenza secondari, che non destano interesse, superati dalla storia. Invece proprio lì prendono vita storie di grande intensità, che faticherei a immaginare in un’ambientazione diversa. Luoghi popolati da individui refrattari, non addomesticati, ostili alla civiltà dei consumi. E in luoghi simili è ancora possibile scorgere il profilo di un mondo interiore, che rende l’individuo ben distinguibile.

Allo stesso modo, trovo evocativi certi posti della Bassa reggiana, vicino a fiume Po, come pure certe vallate dell’Appennino. Luoghi da cui forse chi li abita vorrebbe fuggire, ma in cui si forgia qualcosa di estremamente significativo che non smette di pulsare nel corso della vita. Gli argini dei canali, i colori dell’estate, i suoni della notte, la calura estiva che genera uno stato di immobilità sognatrice. Oggi, giovani e meno giovani si addensano in centri commerciali dove c’è la stessa temperatura tutto l’anno, la stessa luce artificiale, dove gli uni e gli altri passeggiano con lo sguardo appesantito dalla noia. Non sarebbe meglio se ogni tanto andassero a camminare sull’argine della Fiuma, tra Boretto e Guastalla? O si perdessero in un bosco del Cerreto? E farebbero bene a frequentare anche un’officina meccanica, dov’è ancora possibile sentire qualcuno che fischietta mentre lavora.