Recensioni / La potenza del diritto e il principio rappresentativo

LA POTENZA DEL DIRITTO E IL PRINCIPIO RAPPRESENTATIVO (A proposito di Yan Thomas, Il valore delle cose [2002], trad. it. Macerata, Quodlibet, 2015; Fictio legis [2011], trad. it. Macerata, Quodlibet, 2016)

1. L’oggetto del diritto. — 2. Fictio e rappresentanza. — 3. Produttività del diritto e critica della teologia politica.

1. L’oggetto del diritto.

Il saggio è forse la forma nella quale il grande romanista Yan Thomas, recentemente scomparso, esprime al meglio le proprie doti: da un lato la mirabile padronanza e l’uso sapiente delle fonti, dall’altro la capacità di trarre da un itinerario rigorosamente disciplinare e specialistico suggestioni di più ampia portata, tali da risultare di cruciale importanza anche per studiosi di altre materie. Se ne può trovare conferma nei due scritti in questione, originariamente pubblicati in rivista e di recente resi accessibili al lettore italiano in forma di volumetti autonomi. Un elemento comune ad ambedue sembra essere innanzitutto la valorizzazione del carattere operativo e istitutivo del diritto romano: esso non registra e qualifica giuridicamente realtà naturali già esistenti, ma piuttosto produce oggetti giuridici all’interno delle proprie procedure logico-discorsive e grazie ad esse.
Questa circostanza appare con grande chiarezza nel primo dei due saggi, nel quale la nozione giuridica di res è esplicitamente sottratta ad ogni sostanzializzazione naturalistica e consegnata alla dimensione procedurale (1). Ciò significa che, a suo avviso, il diritto romano non definisce res « le cose del mondo esterno »; al contrario, « le qualifica giuridicamente ‘cose’ in quanto le coglie in un processo — il cui nome, res, rinvia allo stesso tempo alla « cosa » messa in causa e alla « messa in causa » della cosa » (2). In tale capacità produttiva e trasformativa rispetto alla realtà — espressione a sua volta di una raffinata razionalità tecnico-procedurale — sembra consistere la potenza specifica del diritto. Come osserva il curatore de Il valore delle cose nella sua Postfazione, « il grado di astrazione e la consistenza fittiva di quei nomi che sono le cose del diritto è ciò che permette di modificare le cose del mondo » (3). A conferma del carattere produttivo del diritto, Thomas nota come già nel lessico giuridico arcaico molte parole significassero a un tempo « il dibattimento e la cosa dibattuta, la disputa e il suo oggetto ». Ciò vale in particolare per termini come lis, come vindicia, ma soprattutto vale per res, « disputa e oggetto sul quale essa verte, processo e cosa che le parti, ciascuna delle quali è detta reus, si contestano » (4).
È però in Fictio legis che è possibile apprezzare al meglio la novità della tesi thomasiana non solo rispetto ad approcci più tradizionali alla materia. La finzione è uno strumento classico di cui il diritto si avvale per perseguire i propri scopi. Esso, scrive Thomas nelle prime righe del saggio, « appartiene alla pragmatica del diritto » (5). Ben più della presunzione, che conserva un qualche legame con la realtà (6), la finzione si caratterizza per il fatto di assumere come vero qualcosa che è indubitabilmente falso. La scienza giuridica, da Gény a Jhering, a Maine ha spesso cercato di neutralizzare la radicale negazione della realtà propria di questa figura, enfatizzandone un presunto carattere conservatore. La finzione, secondo questo tipo di lettura, sarebbe semplicemente « un mezzo rudimentale, ma comodo, per estendere le qualificazioni giuridiche al di fuori del loro campo iniziale, senza perciò modificare in nulla le qualificazioni stesse » (7). Thomas, distanziandosi da questa interpretazione, sottolinea invece l’aspetto sovversivo — questo è il termine usato — della finzione nei confronti del fatto e la sua totale irriducibilità alla dimensione naturale (8). Di più, la finzione mette in luce una caratteristica propria della razionalità giuridica in generale, ovvero il « radicale scollamento tra l’istituzionalità e il mondo delle cose della natura » (9).
È nel diritto romano che tutto ciò risulta con particolare evidenza. Tramite lo strumento della fictio, infatti, il diritto romano prende le distanze non solo rispetto alla natura e ai fatti presunti concreti, ma anche rispetto alla verità, giacché, come si è detto, ciò che si finge è contrario al vero. Qui appare chiaro quanto il diritto romano fosse caratterizzato essenzialmente dalla libertà inventiva, dall’artificialità e dall’autonomia (10), sino a che punto fosse inteso come un prodotto radicalmente umano, situato per questo in un piano di totale immanenza. Non è la credenza, ma l’istituzione che nel diritto sacro di Roma permette di intendere i simulacri come veri, una « convenzione d’equivalenza — nota Thomas — posta in tutta arbitrarietà » (11).
Si capisce allora il motivo per cui il cristianesimo abbia cercato in tutti i modi di limitare la portata della fictio. Essa, proprio per il fatto di essere un prodotto artificiale e umano, uno strumento per modificare, o addirittura per creare ex novo la realtà, appare infatti inconciliabile con l’idea cristiana di un ordine naturale dato di origine trascendente (12).
Cruciale in questo contesto è Agostino il quale meglio di ogni altro avverte « la singolarità della tradizione istituzionale di Roma » e la necessità per il cristianesimo di ridurla entro il perimetro dei propriprincipi (13). Egli conduce questo tentativo nel De civitate Dei attraverso il confronto con Varrone. Per quanto pagano, Varrone appare ad Agostino particolarmente degno di considerazione per la sua cultura e per la sincerità del suo sforzo di discernimento (14). Il suo stile — nota Agostino — « non è gradevole », ma nessuno, in campo religioso, « ha svolto indagini più avanzate, ha fatto scoperte più erudite, osservazioni più attente,distinzioni più sagaci, è stato più accurato nello scriverne » (15), tanto da costituire un modello in campo storico, così come Cicerone costituisce un modello per « lo studioso di stilistica ». Ebbene, il principale rimprovero che Agostino muove a Varrone è proprio quello di aver trattato prima le cose umane e poi quelle divine perché, a suo avviso, le seconde non sono altro che un prodotto dell’attività dell’uomo, un’istituzione umana (16). Ed è precisamente questo che il cristiano Agostino non può accettare: « Ma la vera religione non fu istituita da una qualsiasi città terrena, bensì essa ha istituito senza dubbio la Città celeste » (17).
La recezione cristiana del diritto romano comportava, di necessità, il superamento di quella « rappresentazione » secondo la quale — scrive Thomas — « le cose, anche quelle divine, erano cose costituite » e « la natura era un artificio al servizio di una produzione di artifici » (18). La natura viene piuttosto a costituire per il diritto medievale il limite che nessuna finzione giuridica è in grado di violare. Così la legge « ammette che un cittadino sia morto prima della sua morte, ma non può far sì che i morti generino i vivi. Essa ammette che un morto sia in vita, ma non può far sì che questo morto viva al di là di quanto è dato ai mortali. Essa [...] non può abolire l’ordine che distingue i primogeniti dai cadetti », né « può rendere padre un impotente per nascita » o « rendere chi è più vecchio figlio di chi è più giovane » (19). La verità, vale a dire « l’intangibilità della frontiera fra corporeo e incorporeo, e la legge della riproduzione dei corpi » non può essere trasgredita « né da parte del giurista, né da parte del legislatore » (20).

2. Fictio e rappresentanza.

Il diritto romano costituisce per Thomas il « fondamento » dell’intera esperienza giuridica occidentale: una volta « sradicata » da tale terreno, essa si mostra incapace di autonomia e bisognosa di certezze desunte dalla biologia, dall’etica, dalla religione o dalla sociologia (21). Occorre pertanto ripensarne la cifra specifica: il ‘ritorno’ al diritto romano, e in particolare alla nozione di fictio, contribuisce a rivelare come quella cifra consista nella « separazione [...] tra il diritto e il fatto », separazione dalla quale « l’istituzione trae la sua essenza » (22).
Difficilmente sottovalutabili sono le conseguenze di questo assunto sul piano giuspubblicistico e su quello filosofico-politico. La denaturalizzazione del diritto, la sua riduzione al piano procedurale e istituzionale appaiono inconciliabili con ogni considerazione sostanzialistica di concetti quali volontà generale o bene comune. Il principio di maggioranza, in particolare, non corrisponde ad una trasformazione della quantità in qualità, in conseguenza della quale la volontà dei più, oltre un certo limite numerico, sarebbe per ciò stesso ‘giusta’ o ‘vera’, o comunque esprimerebbe la volontà unitaria di un’entità collettiva: nel diritto romano, afferma senza mezzi termini Thomas, « il voto maggioritario », vale a dire il fatto che « la maggioranza è considerata un tutto » si basa « su un colpo di mano, su un decreto » (23). Si manifesta di nuovo una « radicale disgiunzione fra realtà e imputazione, senza la quale non esisterebbe né la rappresentanza, né lo Stato » (24).
È appena il caso di ricordare la crucialità del concetto di rappresentanza all’interno della teoria politica moderna: com’è noto, la sua teorizzazione da parte di Hobbes costituisce l’atto inaugurale del moderno modo di pensare la politica (25). È il sovrano che dà corpo all’unità politica, che conferisce materialità al soggetto costituente, altrimenti invisibile. Invisibilità, però, non significa inesistenza: il soggetto costituente non coincide col nulla: è piuttosto una sostanza ideale che necessita della mediazione sovrana per rendersi presente.
Nella dottrina dello Stato novecentesca questo aspetto della rappresentanza risulta enfatizzato sia da Carl Schmitt che da Gerhard Leibholz. In Römischer Katholizismus und politische Form Schmitt assume la Repräsentation che la Chiesa realizza nei confronti di Cristo come modello della rappresentanza politica e sostiene che « contenuti concepibili di una rappresentazione sono Dio ovvero, in un’ideologia democratica, il Popolo o ancora idee astratte come Libertà ed Eguaglianza, ma non certo Produzione e Consumo » (26). Solo la teologia e il diritto (correttamente inteso, e dunque non ridotto a mero positivismo) sono in grado di pensare la rappresentanza, ma non certo la scienza economica, caratterizzata da una considerazione esclusivamente quantitativa dei beni e interessata alla determinazione della regola della loro scambiabilità. Nella Verfassungslehre Schmitt ribadisce il principio per cui ciò che dev’essere rappresentato è una sostanza ideale, invisibile (e perciò bisognosa di esser resa presente), ma non certo inesistente: « Rappresentare — scrive — significa rendere visibile e illustrare un essere invisibile per mezzo di un essere che è presente pubblicamente ». Si tratta di un procedimento che non può essere realizzato « con qualsiasi specie di essere », ma soltanto con « una più alta specie di essere ». Esclusivamente le idee, come ad esempio quella di popolo, possono essere rappresentate; invece « ciò che serve solo agli affari e agli interessi privati » è oggetto di mera delegazione (27).
Posizioni sostanzialmente analoghe si ritrovano nel quasi coevo Das Wesen der Repräsentation di Leibholz. Egli sottolinea la realtà, ancorché ideale, di ciò che viene rappresentato: esso è esistente, anche se non presente « qui ed ora » (28); al concetto di rappresentanza « è immanente la duplicità dell’esperienza personale ». Per questo motivo la dialettica della rappresentanza nulla ha a che fare col principio d’identità (29). Il popolo, ad esempio, « è in ogni momento realmente esistente » e tuttavia può essere « riprodott[o] nella realtà unicamente dalla rappresentazione » (30). Sempre in accordo con Schmitt, Leibholz ribadisce che solo entità dotate di particolare dignità possono essere rappresentate: « l’idea di giustizia » o « le comunità che si organizzano intorno ad un valore », mentre, per converso, « non si dà una rappresentazione di valori economici, in quanto questi sono privi della specifica connotazione di valore che si riferisce all’idea » (31).
Thomas caratterizza la sua presa di distanza dal principio rappresentativo attraverso il riferimento critico a Kantorowicz, in particolare a The sovereignty of the artist e al più noto The king’s two bodies. Egli rileva come Kantorowicz sia « affascinato dalla potenza dell’illusione » e come tale fascinazione gli impedisca « una fredda analisi della tecnica giuridica » (32). In particolare, « molte delle sue analisi sostanzializzano ad oltranza le costruzioni politicogiuridiche », trascurando il fatto che esse « non concernono la causalità, bensì l’imputazione » (33). Ritroveremo tali critiche in un altro punto del saggio. Ma già a quest’altezza risulta chiaro quanto Thomas miri a stabilire una netta distinzione fra il diritto correttamente inteso, vale a dire una tecnica giuridica fondata sull’« artificio », sul « come se » e il « misterioso miscuglio di essere e non essere » (34) di chi pretende di farne una scienza di realtà. La tesi della disgiunzione fra il principio di realtà, proprio dell’indagine della natura, e il principio di imputazione, proprio del diritto, lo porta in implicita, ma immediata contiguità con le tesi sostenute da Kelsen (35). Tanto per l’uno che per l’altro l’esito è la desostanzializzazione del diritto: esso è conseguito da Thomas attraverso la valorizzazione della dimensione pragmatica e poietica del diritto, da Kelsen attraverso la rigorosa formalizzazione della scienza giuridica.

3. Produttività del diritto e critica della teologia politica.

a. Per quanto durante il medio evo sia stato perseguito l’obiettivo di delimitare la portata della finzione, non si può dire che esso sia stato raggiunto del tutto. D’altronde, se si accetta il punto di vista di Thomas, ciò non sarebbe stato possibile senza tradire l’essenza stessa del diritto. Così Cino da Pistoia, Baldo e Bartolo affermano che la finzione mira precisamente a modificare i fatti, giacché se si trattasse solo di modificare le norme, non vi sarebbe bisogno di fare ricorso a questo strumento (36). Il fondamento di tale tesi va ricercata nei « romanisti della fine del XII secolo e dell’inizio del XIII secolo », in particolare in Azzone, per il quale la finzione è precisamente « il potere dell’interprete » di affermare l’esistenza di qualcosa che non esiste o, al contrario, di negare l’esistenza di qualcosa che esiste nei fatti (37). È proprio da questa capacità, di origine civilistica, di fingere circa facta e non già dalla teologia che i canonisti — scrive Thomas — derivano la « formula dell’onnipotenza come capacità di fare e di disfare » (38) che poi verrà fatta valere anche per l’autorità politica. Sostenendo questa tesi, Thomas si distanzia nuovamente da Kantorowicz. Questi, nel già citato The sovereignty of the artist, aveva attribuito la paternità della formula al canonista Tancredi, la cui fonte sarebbe un luogo del Decretum Gratiani in cui ricorre il seguente passo, tratto a sua volta dal De mysteriis di Ambrogio: « Sermo igitur Christi, qui potuit ex nihilo facere quod non erat, non potest ea, quae sunt, in id mutare, quod non erant ? » (39). Su questa base, Kantorowicz aveva sostenuto la tesi dell’origine teologica della formula dell’onnipotenza de nihil aliquid facit sicut Deus che prima verrà applicata al papa e poi sarà trasferita « al potere secolare, all’imperatore e quindi — implicitamente — ai singoli re » (40). Ora, argo- menta Thomas, Tancredi « illustra questa formula » allegando un esempio di finzione giuridica relativa alla promessa dotale, dunque tratta dalla materia civilistica: « Si possono esigere tutte le doti mediante un’azione di promessa di dote, che vi sia stata stipulazione o meno [...] poiché [...] decidiamo che la stipulazione abbia avuto luogo anche quando non è stata fatta » (41). Ma se la fictio civilistica e non la teologia è la fonte dei canonisti (42) ne consegue necessariamente l’impossibilità di intendere l’auctoritas politica in termini di secolarizzazione.
b. Thomas perviene alle medesime conclusioni quando afferma che, « a partire da Innocenzo IV, i giuristi presero a dare alle comunità la qualifica di « persone fittizie », personae fictae, oggetto di pura rappresentazione mentale, representatae o immaginarie, imaginariae» (43). Sul punto, egli prende le distanze sia da Hasso Hofmann, sia da Kantorowicz. Tanto nelle posizioni del primo (peraltro affrontate in modo molto cursorio) (44) quanto nelle posizioni del secondo, infatti, Thomas rileva la permanenza di un certo grado di ‘realismo’ nella considerazione di queste figure.
Nel suo Repräsentation. Studien zur Wort- und Begriffsgeschichte von der Antike bis ins 19. Jahrhunderts, Hofmann riconosce la stretta parentela fra la fictio e la repraesentatio, come risulta ad esempio dall’espressione « persona ficta sive repraesentata ». Tuttavia, per quanto la formula non rimandi ad una qualche realtà, ancorché incorporea (45), essa non appare riducibile a puro nome, secondo la tesi « ispirata da Gierke » (46). Infatti i giuristi medievali fondavano i loro ragionamenti su « idee quali l’immagine, la somiglianza, l’imitazione e, insieme, l’analogia »; per questo essi non pensavano affatto « a una costruzione che espressamente e volutamente contraddicesse la realtà » (47). Si può negare che una pluralità di individui riuniti costituisca un’« unità immanente » diversa rispetto alla « realtà oggettiva dei suoi componenti singoli ». Ma ciò non significa — scrive Hofmann — che « alla pluralità delle esistenze contingenti, pensata in concreto come insieme consistente e dunque come totalità concreta, vada negato ogni attributo di realtà » (48). La specifica realtà del corpus fictum e della persona repraesentata, vale a dire del prodotto della rappresentazione, va rinvenuto nella capacità di durare, di mantenersi « identico nel mutamento dei suoi membri » (49).
Per ciò che riguarda Kantorowicz, le cui posizioni sono esaminate in modo più articolato, Thomas critica di nuovo la tendenza di quest’autore a « sostanzializzare la fictio » facendo coincidere (così come Hofmann) la durata delle universitates con la loro sostanza. Ciò avviene in The king’s two bodies a proposito di Bartolo che, scrive Kantorowicz, fa della durata « il maggior argomento contro i nominalisti » (50). A partire da lui « divenne del tutto abituale » distinguere l’universitas come persona autonoma diversa dalle singole individualità che la costituiscono, proprio in considerazione del fatto che, al mutare dei membri in conseguenza del trascorrere del tempo, essa rimane se stessa (51). Tuttavia, rileva Thomas, la durata non è un fatto, bensì una costruzione giuridica: « La continuità del tempo non è naturale, ma giuridica; il tempo che si succede non è un dato ontologico, bensì un’operazione del diritto », ovvero, nel caso specifico, l’applicazione da parte dei giuristi della « tecnica della surrogazione personale » (52). Da qui una conclusione di ordine più generale: « La tradizione occidentale ha sostanzializzato le sue costruzioni giuridiche molto meno di quanto si ritenga: la metafisica politica è più spesso materia degli storici contemporanei che non dei giuristi antichi, compresi i giuristi medievali » (53).
In queste parole si può scorgere innanzitutto una critica nei confronti di un approccio al pensiero giuridico medievale non sufficientemente attento a ricostruirne i profili concettuali. Ma, oltre a ciò, si può ravvisare in esse una critica radicale nei confronti della teologia politica, ovvero della tesi per cui esisterebbe un rapporto di filiazione dei concetti giuridici e politici (moderni) dalla teologia. Thomas conduce la sua analisi soprattutto a ridosso delle posizioni di Kantorowicz, come si è visto, ma è difficile sottrarsi alla suggestione di estenderne la portata anche a Carl Schmitt. È questi infatti, com’è largamente noto, ad affermare in Politische Theologie che « tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati » e a sostenere la corrispondenza, in ogni epoca, fra « la conformazione giuridica della realtà politico storica » e « la struttura dei concetti metafisici » (54). Nel pressoché coevo Römischer Katholizismus, come si ricorderà, sostiene l’analogia concettuale fra la Repräsentation della Chiesa cattolica, capace di render presente la persona di Cristo e la politische Repräsentation dello Stato moderno, capace di render presente un’idea altrimenti invisibile. Ma già in un’opera precedente, Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen, egli aveva fatto dipendere la dignità dello Stato dalla sua capacità di rendere presente, di rap-presentare, l’idea del diritto (55). E quella della dipendenza delle categorie fondamentali del diritto, in particolare del diritto pubblico, dalla teologia è una convinzione che ritorna in tutta la produzione schmittiana, da Ex captivitate salus sino alla tarda Politische Theologie II.
Sulla base di quanto sostenuto da Thomas in Fictio legis, tale rapporto risulta fortemente revocato in dubbio. La radice della moderna dottrina dello Stato non andrebbe ricercata allora nella teologia, e dunque nella capacità di ‘presentificare’ delle idee, ma piuttosto nella figura romanistica della fictio, la quale non pretende di render presente alcunché, ma interviene creativamente nella realtà fingendo che esista qualcosa che invece non c’è (56). Rifarsi a questa « tradizione giuridica pienamente artificialista » significa restituire il diritto ad una dimensione del tutto umana; demistificare la presunta realtà dei « corpi fittizi » (57) significa cogliere oltre e attraverso essi, il concreto operare dei singoli.

(1) Egli infatti, a proposito del diritto romano, parla di « un approccio proceduralista, più che sostanzialista » (Y. THOMAS, Il valore delle cose (2002), trad. it. Macerata, Quodlibet, 2015, p. 24).
(2) Ibidem.
(3) M. SPANÒ, Le parole e le cose (del diritto), in THOMAS, Il valore delle cose, cit., p. 91.
(4) THOMAS, Il valore delle cose, cit., pp. 68-9.
(5) Y. THOMAS, Fictio legis (2011), trad. it. Macerata, Quodlibet, 2016, p. 17.
(6) Cfr. ivi, p. 18.
(7) Ivi, p. 21.
(8) Ivi, p. 23.
(9) Ivi, p. 24. Come scrivono M. Spanò e M. Vallerani nella postfazione al saggio di Thomas, « La finzione è insomma niente di meno che il modus operandi più tipico e proprio del diritto » (M. SPANÒ, M. V ALLERANI, Come se. Le politiche della finzione giuridica, in THOMAS, Fictio legis, cit., p. 98).
(10) Ivi, p. 53: « La scelta che così spesso fanno le leggi romane di disporre mediante contraffazioni piuttosto che tramite una considerazione dei fatti per come essi sono, testimonia invece dell’estrema libertà nei confronti della realtà, dell’eccezionale artificialità delle tecniche del diritto, e, a dirla tutta, della sua potente e innata autonomia ».
(11) Ivi, p. 49.
(12) Cfr. ivi, pp. 59-60.
(13) Ivi, p. 63.
(14) AGOSTINO, De civitate Dei, 6, 6. Per la traduzione dei passi dell’opera utilizziamo l’edizione curata da C. Carena, Torino, Einaudi, 1992: « O Marco Varrone, tu sei il più sagace di tutti gli uomini, e indubbiamente il più colto, eppure un uomo, non un dio [...] Certamente discerni come bisogna distinguere le cose divine dalle frottole e dalle menzogne umane ».
(15) Ivi, 6, 2.
(16) Ivi, 6, 4: « Varrone riconosce dunque di aver descritto prima le materie umane, poi le divine, poiché queste sono un’istituzione umana, in base al seguente ragionamento: ‘Come il pittore viene prima del quadro dipinto, e il costruttore prima dell’edificio, così gli insediamenti civili precedono le istituzioni’ ».
(17) Ibidem.
(18) THOMAS, Fictio legis, cit., p. 65.
(19) Ivi, p. 87.
(20) Ivi, p. 89.
(21) Ivi, p. 57.
(22) Ivi, p. 56.
(23) Ivi, p. 57.
(24) Ivi, pp. 57-8.
(25) Sul punto risultano imprescindibili le riflessioni di G. DUSO, La rappresentanza politica. Genesi e crisi del concetto, Milano, FrancoAngeli, 2003.
(26) C. S CHMITT, Cattolicesimo romano e forma politica (19252), trad. it. Milano, Giuffrè, 1986, p. 50.
(27) C. SCHMITT, Dottrina della Costituzione (1928), trad. it. Milano, Giuffrè, 1984, p. 277.
(28) G. LEIBHOLZ, L’essenza della rappresentazione (1929), trad. it in ID., La rappresentazione della democrazia, Milano, Giuffrè, 1989, p. 70.
(29) Ivi, p. 71: « Il parlamento che rappresenta non ‘è’ il popolo, il rappresentante del monarca non ‘è’ il monarca ».
(30) Ivi, p. 95.
(31) Ivi, p. 74.
(32) THOMAS, Fictio iuris, cit., p. 58.
(33) Ivi, p. 58n.
(34) Ivi, p. 59.
(35) Per un verso Kelsen afferma che se la scienza del diritto deve distinguersi da quella della natura, « il diritto deve allora essere staccato il più chiaramente possibile dalla natura » (H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto (1934), trad. it. Torino, Einaudi, 1952, p. 48); per l’altro verso ritiene che ciò possa avvenire distinguendo il principio di causalità, proprio delle scienze della natura, dall’imputazione, ovvero il principio nel quale « la dottrina pura del diritto ravvisa la speciale struttura del diritto. Come l’effetto è attribuito alla sua causa, così la conseguenza giuridica è attribuita alla sua condizione giuridica, ma quella non può essere considerata come causalmente prodotta da questa. La conseguenza del diritto (o della violazione del diritto) è imputata alla condizione giuridica » (ivi, p. 63).
(36) Cfr. THOMAS, Fictio iuris, cit., p. 70.
(37) Ivi, p. 73.
(38) Ivi, p. 74.
(39) Cfr. E.H. KANTOROWICZ, La sovranità dell’artista (1961), trad. it. in ID., La sovranità dell’artista. Mito e immagine tra Medioevo e Rinascimento, Venezia, Marsilio, 1995, p. 28; THOMAS, Fictio iuris, cit., p. 74n.
(40) KANTOROWICZ, La sovranità dell’artista, cit., p. 29.
(41) Ibidem.
(42) Ivi, p. 74.n: « I primi canonisti ad aver utilizzato la formula « creare qualcosa che non esisteva a partire dal nulla » presa in prestito al Decreto, l’hanno fatto attraverso le definizioni della inzione giuridica reperibili presso i civilisti ».
(43) Ivi, p. 78.
(44) Thomas, infatti, si limita ad osservare in nota, che « malgrado » quest’autore, « l’idea di finzione è ben espressa anche attraverso quella di rappresentazione » (ivi, p. 78n.).
(45) H. HOFMANN, Rappresentanza-rappresentazione. Parola e concetto dall’antichità all’ Ottocento (1974), trad. it. Milano, Giuffrè, 2007, p. 153: « Secondo Bartolo, la corporazione non è propriamente nient’altro che la somma dei suoi membri ».
(46) Ivi, p. 163.
(47) Ivi, p. 160.
(48) Ivi, p. 165.
(49) Ivi, pp. 169-70.
(50) E.H. K ANTOROWICZ, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale (1957), trad. it. Torino, Einaudi, 1989, p. 265n.
(51) Ivi, p. 409.
(52) THOMAS, Fictio iuris, cit., p. 80n.
(53) Ivi, pp. 79-80.
(54) C. SCHMITT, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità (1922), trad. it. in ID., Le categorie del ‘politico’, Bologna, il Mulino, 1972, pp. 61 e 69.
(55) C. SCHMITT, Il valore dello Stato e il significato del singolo (1914), trad. it. Bologna, il Mulino, 2013. Per un inquadramento del saggio all’interno della produzione schmittiana, cfr. la Presentazione di C. Galli, pp. 5-18. Ci permettiamo altresì di rimandare al nostro Trascendenza e realizzazione del diritto. La teologia politica in un’opera giovanile di Carl Schmitt, in « Lo Stato. Rivista semestrale di scienza costituzionale e teoria del diritto », II (2014), 2, pp. 263-273.
(56) La circostanza per cui, com’è stato recentemente osservato da G. AGAMBEN, L’uso dei corpi, Vicenza, Neri Pozza, 2014, p. 348, la democrazia sarebbe contraddittoriamente caratterizzata dall’ademia, vale a dire dall’assenza del popolo, sembra trovare nell’analisi di Thomas la sua giustificazione.
(57) THOMAS, Fictio legis, cit., p. 80n.