Recensioni / La mediazione come forma di conoscenza

L’intelligenza dialettica di Franco Fortini in un saggio di Francesco Diaco.

C’è un passo della Prefazione alla ristampa del 1973 di Dieci inverni – il libro che, come recita il sottotitolo, raccolse i Contributi a un discorso socialista svolti tra il 1947 e il 1957 – che non smette di interrogare l’accanito lettore di Fortini: “Letterato per i politici, ideologo per i letterati, molto tempo mi è stato necessario per comprendere che se una forza mi aiutava veniva questa dalla ambiguità, dalla identità doppia in cui si rifletteva una ambigua realtà sociale” (p. 11). È forse il luogo in cui l’intellettuale marxista scopre definitivamente le sue carte, dichiarando l’impossibilità di disciplinarsi a una politica di partito, eppure confrontandosi con la necessità di quest’ultima, secondo una posizione dialettica che porterà Fortini a sentirsi, rispetto all’ideologia ufficiale dei suoi interlocutori, il Psi prima e il Pci poi, al pari di un “ospite ingrato”, per dirla con una sua felice espressione. Ma quel passo è anche la sede di un invito alla dialettica, intesa come intelligenza concreta di un pensiero che non riposa mai su se stesso, che è in grado di disvelare il contraltare della facile immanenza. Quell’ambiguità non è semplicemente la contraddizione, ma è il tortuoso percorso che una mente critica deve percorrere per discendere nelle maglie strettissime e difficili della mediazione.

In Verifica dei poteri, pubblicato nel 1965, il letterato che è anche ideologo e il comunista che è anche poeta (senza i fronzoli di uno sbandierato impegno per il socialismo, dal quale Fortini rifugge proprio in virtù di una lotta senza quartiere al meccanicismo volgare e all’immediatezza) si fonde nella figura del critico della società, offrendoci un contributo essenziale alla demistificazione dello specialismo come conseguenza effettiva del dominio capitalistico: “il critico è tenuto, quando la condivida, a situarsi fin d’ora al livello del discorso comune; che, naturalmente, non ha nulla a che fare col discorso qualsiasi, ma che è comune anzi e proprio perché cerca una comunanza di oggetti al di là della mistificazione indotta dalla falsa democrazia culturale”. E, in quanto mediatore, il critico non potrà che partire dalla sua specialità, bruciando essa sul terreno della condivisione culturale e dell’intervento sociale, e allontanando la possibilità che essa si converta – per dirla con il lessico d’oggi – in “competenza”, in abilità tecnica autoreferenziale: “Esercitare la critica, svolgere il discorso critico vuol dire allora poter parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione”. E, in tal senso, il critico non è lo specialista, ma “è la voce del senso comune, un lettore qualsiasi che si pone come mediatore non già fra le opere e il pubblico di lettori ma fra le specializzazioni e le attività particolari, le ‘scienze’ particolari, da un lato, e l’autore e il suo pubblico dall’altro” (p. 25). Un saggista, insomma, che, forte della propria autorialità, ambisce a depositare nei suoi testi una verifica costante delle mediazioni che rendono possibile la conoscenza puntuale di una specifica occasione storica, della quale gli oggetti culturali non sono che emersioni, figurazioni, manifestazioni profonde.

L’insistenza di Fortini sulla necessità di una critica dialettica non trova pari nel nostro paese. Definisce, del resto, la postura di un intellettuale non assimilabile a una fede o a una parrocchia, seppure interno allo sviluppo dell’ottica marxista. Questa indipendenza (che però non è autonomia) ha garantito l’impossibilità di un’integrazione in quella società che all’intellettuale accordava un ruolo specifico. La lezione di Fortini risiede allora proprio nella chiarezza con cui l’autocoscienza culturale si muove in un contesto di dissoluzione del paradigma umanistico e di continua manipolazione dell’immaginario: ogni pretesa di autonomia culturale è dialetticamente correlata al posto assegnatole dal mercato capitalistico delle competenze; chi voglia dirsi distante da queste logiche è chiamato a una continua verifica delle proprie posizioni e a sollevare lo sguardo oltre se stesso, per rimuovere il rischio che la propria attività possa divenire una conferma dello stato di cose, della condizione dominante, la cui astuzia consiste nell’aver reso merce qualsiasi resistenza, nell’aver integrato il gesto critico. È quanto Fortini contesta a Pasolini, di non essersi reso conto che il suo agire rispondeva alle esigenze di quella società che, drammaticamente, voleva contestare. In Fortini non c’è disperata vitalità: c’è, semmai, la calma paziente dell’intelligenza dialettica, unita a una controllata veemenza politica; dietro alle più esplicite prese di posizione non si può scorgere il vizio dello spontaneismo, ma l’esito di uno svolgimento che è verifica costante di presupposizioni.

Anche nella sua poesia il movimento tortuoso delle mediazioni è assolutamente centrale. Saggio e poesia in Fortini rappresentano non semplicemente due modalità di espressione: bensì, i veicoli di un ragionamento unitario che, volendosi confrontare con la particolarità specifica di una data occasione, verifica costantemente le sue precondizioni e vaglia i presupposti del dialogo e dello scontro tra l’individualità e il corpo sociale, tra l’Io e la sua alterità.

Francesco Diaco, nel centenario dalla nascita del poeta, ha recentemente consegnato alle stampe un riuscito tentativo di analisi a tutto tondo della produzione poetica di Fortini, leggendola alla luce del suo rapporto costruttivo con la temporalità storica. Dialettica e speranza. Sulla poesia di Franco Fortini (Quodlibet, 2017) non è solo un’utile disamina del lascito letterario, colto nelle sue ragioni formali e storiche, ma un volume che risponde, mi sembra, a una sollecitazione più profonda: ribadire i nessi teorici entro cui Fortini si muove, inscenando, nel corso della sua avventura intellettuale, un tentativo originale di possibile costruzione di una via dialettica ai problemi culturali, sociali e politici. Le pagine di Fortini – siano esse saggi o poesie – fungono da rappresentazione del movimento dialettico e raffigurano, in tal senso, uno scontro permanente tra le contraddizioni del presente e le possibilità del futuro, così allegorizzando una sorta di battaglia omerica tra diverse temporalità, siano esse latenti, reali o desiderabili. “La forza e l’originalità del pensiero fortiniano – scrive Diaco – stanno proprio nella compresenza di tali spinte antitetiche e nella loro continua correzione reciproca” (p. 19), secondo un percorso sempre problematico di verifica, per certi aspetti volutamente discontinuo nel suo dinamizzare i concetti. Ciò permette a Fortini una libertà analitica di movimento che mai, tuttavia, si adagia su un disinteressato relativismo. Anzi, per Diaco, è possibile individuare “una sorta di legge” attiva sia nella dimensione saggistica che in quella poetica, che è poi l’oggetto vero di Dialettica e speranza: “l’estensione temporale della prospettiva fortiniana è inversamente proporzionale alla presenza di possibilità rivoluzionarie. Lo sguardo si allunga e si distacca dall’oggi quando il presente appare chiuso e congelato; lo sguardo si accorcia e si accosta all’oggi quando il presente lascia scorgere spiragli per l’azione”. Sicché, “quando il presente appare negativo e immobile […], si potenzia il lato tragico-utopico, si opta per uno scatto gestuale animato dal pessimismo della ragione e dall’ottimismo della volontà”; quando invece “il presente rivela tratti positivi e dinamici, Fortini predilige l’inserimento dell’io nella collettività, il lavoro umile e prosastico, la collaborazione con gli altri” (pp. 29-30). La poesia, alla stregua di “una prova dell’io di fronte alla storia” (p. 51), rientra in questo processo di accostamento alla realtà, nel corso del quale Fortini però esibisce il travaglio delle mediazioni, il lavoro difficile del riconoscimento, quel percorso a ostacoli in virtù del quale l’Io si libera della sua cattiva individualità per poter accogliere, pur continuando a dire Io, l’alterità che lo circonda e che lo riempie di determinazioni. Come ha scritto Luca Lenzini, in uno dei primissimi contributi organici alla comprensione della poesia di Fortini, è nella poesia dei “destini generali” (così si intitola un’importante sezione di Poesia e errore) “che si dà il superamento dell’inganno soggettivo che condanna al ‘diviso esistere'” (p. 43) e si pongono le basi per un Io più vero, che risponde anche all’edificazione di una speranza collettiva: da qui, quella tensione utopica che è centrale nella poetica fortiniana.

Risulta allora produttivo, e non soltanto sul piano critico, illuminare il percorso della poesia di Fortini ricorrendo al principio di “figuralità”: al pari del concetto, lo svolgimento poetico assume in sé tutte le difficoltà della mediazione, diventando una sorta di icona stessa della dialettica, entro la quale è possibile scorgere – anche per mezzo dell’altissimo tasso allegorico – l’incedere contrastato e contrastante della Storia, la manifestazione di una possibilità di scontro tra passato, presente e futuro che trascina necessariamente contenuto e forma sul terreno dell’interpretazione politica. La dimensione poetica permette a Fortini un marxismo non didascalico e per nulla meccanico: in virtù dell’attenzione al travagliato rapporto tra Io, ideologia, mondo, collettività e alienazione capitalistica, e sua rappresentazione concettuale o estetica, Fortini è riuscito a mantenersi distante dalle tentazioni di un marxismo della soggettività presupposta, anzi indicando nelle tentazioni prometeiche e inverificate un primo passo verso la distruzione della dialettica e del concetto di mediazione (aspetti, del resto, costitutivi del capitalismo medesimo). Forse proprio per questo, al netto di un’egemonia ormai conseguita dai figli (se degeneri, si discuterà) del marxismo antidialettico, coincidente con l’esortazione giornaliera alla fine del socialismo, alla morte della sinistra, allo sperato decesso del lavoro salariato, Fortini ci sembra oggi sia lontano che prossimo, sia irraggiungibile per la sua nettezza concettuale sia attualizzabile per uscire dalle maglie solo apparentemente deboli del pensiero odierno.