Recensioni / Vita tra i reali e il surreale

II grande critico d’arte e fotografo Milton Gendel, 99 anni, sfoglia il suo album di ricordi nella sua casa romana. Si comincia da quella volta in cui l’amica Elisabetta II…

Non sono tanti i fotografi che hanno la chance di ritrarre la regina Elisabetta in kilt con un fazzolettone in testa, mentre dà da mangiare ai suoi leggendari cani corgis (hamburger, per la cronaca). A Milton Gendel si presentò l’occasione di ritrarla così, come una massaia qualsiasi, quando nel ’76 fu ospite del castello di Balmoral, in Scozia, residenza di villeggiatura della real casa. «I gentiluomini andavano a caccia, le signore a spasso, poi tutti insieme a fare un picnic» racconta oggi Gendel con quel suo divertito distacco dalle cose del mondo, che l’età venerabile enfatizza (quest’anno compie 99 anni). «Una volta la sovrana mi chiese, scrutando un prezioso tessuto di corteccia di gelso proveniente dalla Polinesia: “Mr. Gendel, mi aiuterebbe a decidere cosa fare di questa tapa, dono della regina di Tonga?”». A spiegare l’assiduità di Milton a corte è il fatto che una delle sue ex mogli, Judy Montagli, nobildonna inglese, era intima amica della principessa Margaret. L’invito in piscina a Buckingham Palace era sempre aperto per i coniugi Gendel. «Un giorno uno dei corgi fece un bisognino sul tappeto rosso. La regina scosse la testa: “Oh dear esclamò. Poi prese un po’ di carta igienica in bagno e rimediò in prima persona al misfatto. È una persona alla mano: ha un’educazione impeccabile».
Fotografo per passione, critico d’arte per mestiere, charmeur per virtù naturale, Milton Gendel ha sempre frequentato il fior fiore della società internazionale e del mondo dell’arte, entrando facilmente in confidenza con talenti e celebrità, prima a New York dove è nato, poi a Roma dove si è trasferito a vivere nel ’49: a favorirlo, la profonda cultura mai esibita, la conversazione brillante, una capacità d’ascolto fuori del comune, i modi gentili, l’elegante e magnetica nonchalance… Il che gli ha sempre dato la possibilità di ritrarre quei personaggi di pregio «fuori scena», nei momenti di relax, tra una chiacchiera e l’altra. Mai in posa. E senza mai rubare una foto.
Lo racconta un’interessante e divertente monografia che uscirà a fine giugno, Milton Gendel. Uno scatto lungo un secolo, di Barbara Drudi, storica dell’arte che conosce Milton da sempre, perché suo zio Toti Scialoja era uno degli artisti più legati a Gendel. Il libro (edito da Quodlibet e Fondazione Passaré, pp. 242, euro 22) prende in esame la sua intensa attività di fotografo, che pure rimase sempre un divertissement, e quella professionale di critico d’arte. Concentrandosi sugli anni tra il 1940 e il 1962: sulla sua formazione a New York, ebreo d’origini bielorusse e studente alla Columbia, dove si laurea prima in Scienze poi in Arte e Archeologia, diventando assistente di Meyer Schapiro, il grande storico dell’arte; sulla sua amicizia con i surrealisti francesi, che la guerra in Europa aveva fatto fuggire oltreoceano; sul suo arruolarsi volontario nell’esercito americano in Cina, per seguire il rimpatrio dei giapponesi dopo la sconfitta (è li che incomincia a fotografare, facendosi prestare una Leica); sull’arrivo a Roma nel Dopoguerra con una borsa di studio, per poi diventare assistente di Adriano Olivetti e corrispondente di ArtNews, una delle riviste più influenti nel mondo dell’arte statunitense. Per anni Gendel fa da trait d’union fra cultura italiana e americana, frequentando con pari souplesse le trattorie e i bar bazzicati dagli artisti spiantati e i salotti prediletti dalle star intellettual-mondane.
E intanto inquadra, mette a fuoco, scatta. Ora Milton ha donato alla Fondazione Primoli i suoi 72 mila negativi e i 10 mila volumi della propria biblioteca: in cambio, ha avuto in comodato d’uso uno splendido appartamento nel palazzo che fu del conte Giuseppe Primoli, pronipote di Napoleone e pioniere della fotografia. Loggia che affaccia sul Tevere con soffitto affrescato, tele settecentesche e antiche carte geografiche, raccolte di medaglie, monete, sculture africane, cocci di scavo, cimeli del Risorgimento: habitué di Porta Portese negli Anni 50, quando ancora si facevano affari al mercato delle pulci, Milton non si definisce un collezionista, ma un accumulatore, e la sua casa-studio è un susseguirsi di camere delle meraviglie. In cui s’annidano anche le opere dei vecchi amici: De Kooning, Motherwell, Dorazio, Tancredi, Scialoja, Perilli… Perfino, in una teca sul muro, un paio di scarpe con disegni firmati da Alexander Calder sulle suole verniciate di bianco. Risalgono al ’68, quando Gendel si imbrattò dipingendo il proprio appartamento: non appena Calder vide quelle suole candide, vi schizzò due ritratti di Milton, di faccia e di profilo.
In casa Gendel ogni libro, ogni foto, ogni quadro richiama un aneddoto: «Una volta incontrai Guttuso all’Ambasciata italiana di Mosca: era arrivato con il busto marmoreo di Bruto scolpito da Michelangelo, che il Bargello prestava al Museo Puskin. Aveva lo charme irresistibile dei meridionali. E ci marciava. Era l’opposto di Moravia, arrogante, presuntuoso, benché vittima delle continue scenate della Morante, un mostro di donna, che lo azzittiva: “Taci, fascista!”». Nel ’54 Gendel scrive un famoso articolo su Burri, seguendo tutte le fasi di realizzazione di una sua opera. E diventa amico di quell’artista schivo e solitario: «Mi regalò uno dei suoi Sacchi, che dovetti vendere negli anni 70 per pagare gli studi a mia figlia. Quando glielo confessai, si limitò a chiedere: “Quanto ti hanno dato””Centomila lire”. “Peccato, è quotato dieci volte tanto”».
Su ogni altro, troneggia il ricordo di Peggy Guggenheim, amica e sodale: a unire i due espatriati americani, l’amore per l’Italia, il gotha intellettuale e blasonato, l’eccentricità, lo humour. «A un tipo che la commiserava per un furto di quadri rispose: “La ringrazio, ma sono stati tutti recuperati dalla polizia. Anzi, ne hanno rubati dodici e, con mia grande sorpresa, me ne hanno restituiti tredici”». Si erano conosciuti a New York nei primi anni 40, Milton e Peggy, quando lei era fuggita dall’Europa in fiamme, trascinando con sé i maestri che presero a frequentare l’estroso salotto di Gendel a Washington Square. Breton, Matta, Tanguy, Dalì, Lipchitz erano di casa in quell’appartamento dai pavimenti dipinti a onde rosse e blu, con un grande Cristo di cartapesta verde trovato per strada, tavolo e muri decorati dagli ospiti. «Matta si prendeva molto sul serio e non smetteva mai di parlare. Il suo trotzkismo ci mise nei guai: venne a farci visita l’Fbi. Dalì divenne famoso a New York allestendo le vetrine di un negozio della Fifth con doccia e vasca da bagno: quando si accorse che avevano alterato qualcosa, scagliò la vasca contro il vetro, conquistando la prima pagina dei giornali. Breton era un trombone dai modi ostentatamente istrionici: non parlava, declamava. Affidò la condirezione della sua rivista surrealista VVV (Victory! Victory!Victory!) a me e al mio amico Robert Motherwell, ma poi ci licenziò come intollerabilmente borghesi, per aver realizzato dei cartoncini natalizi. Ci sostituì con l`artista David Hare, che in breve gli rubò la moglie Jacqueline, ex trapezista in un circo e pittrice: una donna interessante».
Gusto per l’ironia, il paradosso, l’assurdo, la bizzarria: lo spirito di Gendel è stato certo influenzato da quella stagione surrealista. Come le sue fotografie. Una per tutte: il ritratto in pelliccia di Lord Snowdon, marito della principessa Margaret, e André Leon Talley, giornalista di Vogue, durante una sfilata delle sorelle Fendi.