Per quanto i medici, e soprattutto i dietologi, raccomandino attenzione alla qualità, quantità e anche regolarità negli orari dell’assunzione del cibo, in tempi di junk e street food e orario continuato la verità è che per la maggior parte di noi esiste una certa confusione sull’orario dei pasti: e quindi anche sui nomi con cui siamo abituati a designarli.
Quand’ero ragazzo, una sessantina di anni fa, a Firenze si mangiava “a’i’tocco”, cioè al suono di un solo battito di campana da Palazzo Vecchio: l’una “del pomeriggio”. E la nonna si meravigliava sapendo che una coppia abbastanza chic di amici dei miei genitori li aveva invitati “a colazione” appunto alle 13: «O a che s’invita la gente a colazione? E poi, icché gli danno, i’ cappuccino con le brioche?». Per la nostra cara vecchietta contadina la “colazione” era solo la prima, quella che prendeva il nome dalla consuetudine monastica della collatio, mentre verso l’una c’era non già la “seconda colazione”, espressione abbastanza ambigua, bensì il “desinare”. Divertente francesismo per quel che viene considerato il principale pranzo del giorno, dal momento che il verbo déjeuner deriva dalla stessa parola latina dalla quale in italiano proviene “digiuno”. La nonna non diceva mai “pranzo”: quella era una parola che usavano i ricchi oppure riservata alle grandi occasioni (“pranzo di nozze”, “pranzo di gala”). Se poi gli amici chic di cui sopra le avessero formulato un invito “a pranzo” per le otto di sera, si sarebbe scandalizzata di nuovo. La sera si cena, non si pranza.
La confusione nelle parole e nelle abitudini non è solo italiana. Armi fa dovetti accogliere all’aeroporto di Siviglia, dov’eravamo in tanti per un convegno, un collega tedesco che metteva per la prima volta in vita sua piede in Spagna. L’idea di trovarsi finalmente in Andalusia lo incantava: tanto che insisté – si era con teutonica accuratezza letto una buona guida cittadina prima di arrivare – perché il taxi ci scaricasse non dinanzi all’hotel bensì all’inizio della bella Calle Sierpes che voleva farsi subito a piedi per godersi la movida nonostante il torrido calore pomeridiano. E lì – erano più o meno le sei del pomeriggio, e il collega aveva avidamente letto le parti storiche e artistiche della guida ma trascurato le pagine dedicate agli usi gastronomici – rimase stupefatto allo spettacolo dei ristoranti pieni e della gente che mangiava allegramente. «Mi avevano detto che in Spagna si cena tardi commentò –, ma questi mangiano alle sei come ad Hannover!»; «Sì, ma guarda che stanno pranzando, non cenando», risposi. Temé di non aver capito e, non fidandosi ben a ragione – del mio tedesco, pretese che gli confermassi che quel che stava facendo tutta quella gente era il lunch, non il dinner.
Alessandro Barbero, in quanto storico, non può non prestare la debita attenzione alle parole e alla loro avventura semantica. Ma, per quanto sia titolare di cattedra di storia medievale, come romanziere ha vinto lo Strega del ’96 con un libro ambientato nell’Europa del primo Ottocento e la passione per quello snodo affascinantissimo tra XVIII e XIX secolo («due secoli / l’un contro l’altro armato»: diceva bene il Manzoni!) gli è rimasta. Continuando a scavare pertanto in quel suo prediletto periodo, si è imbattuto in una rivoluzione sociale allora avvenuta proprio, guarda caso, nelle due capitali che allora contavano e “facevano moda”, Parigi e Londra: dove le classi dirigenti avevano assunto per motivi che riguardavano gli affari e le relazioni sociali l’abitudine di spostare sempre più l’orario del pranzo principale della giornata (quello che ancor oggi, con irriflesso arcaismo, sono in tanti in Italia a chiamare “il pasto di mezzogiorno”) fin addirittura alle sette del pomeriggio. Ma per arrivarci bisognava pur mangiar qualcosa prima che non fosse il rapido breakfast: ed ecco il sostanzioso déjeuner à la fourchette a metà mattinata, mentre per effetto dello spostamento pomeridiano del pranzo scompariva la cena serale. Tutto ciò s’impara nel dotto e divertente libro di Barbero A che ora si mangia? Approssimazioni storico-linguistiche all’orario dei pasti (secoli XVIII-XXI), (Quodlibet, pagine 87, euro 10,00).
Per la nota legge antropologica della “diffusione delle forme culturali” l’innovazione delle classi alte inglesi e francesi si sparse abbastanza rapidamente nel resto dell’Europa e dell’Occidente, ma frattanto si evolveva ulteriormente, spostando i due pasti sempre più tardi, nei due paesi d’origine. Questi slittamenti produssero un divertente fenomeno, che in Italia si riscontra sia nel permanere della comune designazione di “pranzo” per il pasto principale della giornata, sia nella restaurazione del sistema temano colazione-pranzo-cena. Al punto tale che, nota Barbero, se adesso uno legge le commedie del Goldoni ne trae l’impressione che da allora a oggi nulla sia mutato, mentre c’è stata a livello europeo una vera rivoluzione, un cambiamento di trecentosessanta gradi che alla fine ha riportato le cose al loro punto di partenza. Bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale, come diceva quel tal nobile siciliano del capolavoro di Tommasi di Lampedusa che aveva capito la necessità di vestir la camicia rossa per salvaguardare i privilegi di classe.
E d’altronde le cose comunque cambiano. Nell’esplodere degli usi odierni tra breakfast e lunch si è introdotto l’ibrido brunch, consumato però il quale salta spesso il lunch sostituito da vari snack: i quali, oltre che accrescere il peso ponderale fanno passar l’appetito, per cui arrivati al momento del dinner (il souper francese è scomparso, come i potages, salvo forse in famiglia) ci si accontenta dell’apericena. Peccato siano quasi scomparsi i rituali spaghetti di mezzanotte olio aglio peperoncino della mia gioventù goliardica.