Come vengono percepiti i volti dai bambini? Grazie ai laboratori fotografici con i più piccoli si può capire come tendano a focalizzare i dettagli
Il bambino incomincia a guardare il mondo da miope. È uno dei temi preferiti dall’artista-fotografa Marina Ballo Charmet, che ha raccolto una selezione di testi e immagini nel libro Con la coda dell’occhio (il volume contiene anche una conversazione tra l’artista e il critico Jean-Francois Chevrier, oltre a un testo di Stefano Chiodi). L’interesse per lo sguardo infantile – e con ciò che di esso sopravvive nell’adulto – si è rinforzato con la trentennale attività di Ballo Charmet, psicoterapeuta nei servizi territoriali pubblici di Milano. Per un bambino il volto non appare come un ritratto, una riproduzione delle sembianze in una visione d’insieme, quanto come la parte di una mappa da ricomporre con lo sguardo, il tatto, l’olfatto: si concentra così sui dettagli, a una ventina di centimetri di distanza. Nell’opera intitolata Primo campo l’artista ha
riprodotto il campo visivo infantile, come quando il bambino, tenuto in braccio da un adulto, focalizza la propria attenzione su un dettaglio, per alcuni istanti; è un’attenzione mobile, “fuori fuoco”, fissa la ruga agli angoli della bocca, la barba ispida poco sopra il colletto della camicia. Gustavo Charmet, a proposito di Primo campo, ha sottolineato che “al posto del ritratto c’è l’immagine mentale del contatto”. Il bambino procede per tentativi, allunga la mano verso il volto, l’ignoto. Ciò che il bambino vede è restituito dalle fotografie di Ballo Charmet, un chiarore appena accennato, un limite incerto, come la luce poco prima dell’alba o del tramonto, una sensazione associata alla convalescenza, che giunge da un luogo interno ed esterno, vicino e lontano, una lontananza custodita dentro di noi: inizia nel passato per rischiarare il presente. Questa
attenzione mobile infantile va incoraggiata, poiché svanisce fin dalle scuole elementari. Durante i seminari di fotografia tenuti dall’artista agli alunni di una scuola nel 2004-2005, i bambini rimanevano colpiti dalle immagini di Primo campo, e chiedevano: “Ma quella è una faccia?” Percepivano la realtà già irregimentati nel codice degli adulti. Lo psicoanalista Salomon Resnik, sottolineava come gran parte dell’insegnamento scolastico si fondi “sulla capacità di non distrarsi, ma non tiene conto dell’immediatezza delle forze inconsce”, ovvero “dell’errare dell’immagine”, la visione periferica evidenziata da Chiodi. I bambini avevano utilizzato macchine usa e getta per fotografare. Alcune loro immagini si trovano all’interno del libro: muretti, marciapiedi simili a quelli fotografati da Ballo Charmet, marciapiedi ritratti all’altezza del bambino, dal basso, o, come dice Chevrier, dal punto di vista del cane. Il bambino, incantato dall’apparizione delle cose, identifica il mondo con la propria immaginazione. Ballo Charmet ha assegnato un valore all’ambiguità dell’immagine, alla discontinuità della visione; è interessata a ciò che appare come da una disattenzione, fondamento dell’immagine stessa, disattenzione che tuttavia conserva gli stimoli primari: vedere il mondo con gli occhi del bambino significa percepirne le ombre, le incongruenze, i desideri di fuga, le inevitabili delusioni, le euforie. Per il bambino “il precursore dello specchio”, ricorda Ballo Charmet, citando Winnicott, “è la faccia della madre”. Ecco il motivo per cui, anche da adulti, poco prima di uscire di casa affrontiamo il mondo lanciando un’occhiata veloce alla nostra immagine riflessa dentro lo specchio; e poi ce ne allontaniamo.