L’idea di Nicolini: far arrivare cinema e arte nei quartieri. E fece scuola
Lo schermo a Massenzio, la poesia in spiaggia, il teatro per strada: così nacque la manifestazione
EFFIMERO, ovvero ciò che dura un giro del sole, dall’alba al tramonto. In senso più generale, il concetto che sta dietro alla parola indica qualcosa che ha una durata breve ed è quindi destinato alla caducità. Ebbene, questa è la prova che talvolta le parole sono scollegate dai fatti che rappresentano, perché l’effimero inventato dal vulcanico Renato Nicolini va avanti da quarant’anni esatti.
È qualcosa che nasce e muore in poche ore, trasformando la geografia dei luoghi, che prima diventano qualcosa di radicalmente altro rispetto a origini e destinazioni d’uso, e in rarefatti giri di orologio tornano quello che erano. Ma ciò che vi accade, l’hic et nunc, si radica nella memoria in maniera indelebile. Era la prima «giunta rossa» di Roma, quella guidata dal sindaco – e storico dell’arte: chi non si è formato sui suoi manuali nei licei da Torino a Palermo? – Giulio Carlo Argan e un architetto all’epoca trentacinquenne, che proprio nel ventre capitolino nacque e si formò, nel 1977, da assessore alla cultura, inventò una formula che ha cambiato la fruizione della cultura e degli spazi urbani d’estate.
TUTTO cominciò con un grande schermo per il cinema all’aperto fino a notte fonda alla Basilica di Massenzio: il successo fu subito travolgente. Poi vennero il teatro per strada, i reading di poesia in spiaggia a Castel Porziano, le mostre, le performance… E l’Estate romana fece presto scuola.
Nelle grandi città, certo, ma anche nei luoghi della provincia. L’Estate Romana, questa la celebre intuizione di Renato Nicolini, insegnò fino alla metà degli anni Ottanta che la cultura – alta, bassa, di nicchia o pop – non va in vacanza. E quando, più tardi, le città hanno cominciato a non essere più chiuse per ferie, perché la crisi economica e la seguente contrazione dei consumi le avevano giocoforza accorciate, l’idea che ci fosse qualcosa da fare o da vedere iniziò a radicarsi nella gente.
In più, ecco il valore aggiunto, tutto questo accadeva (e continua ad accadere) in spazi urbani e architettonici non nati per essere destinati agli spettacoli, alle mostre, al cinema, ai reading di poesia, dando così la possibilità ai cittadini di vivere un’esperienza spazio-temporale nuova, guardando con occhi differenti a piazze, basiliche, parchi, centro e periferia.
A PROPOSITO di questo, i due poli delle città, centro e periferia appunto, cominciarono a entrare in contatto in senso antropologico, si contaminarono le aree perché chi voleva assistere a qualcosa, dovunque abitasse, era costretto, felicemente costretto, a transumanze culturali. E tutto ciò si realizzava due anni prima dell’uscita del saggio “La condition postmoderne” di Jean-Frangois Lyotard, che su queste pratiche, in qualche modo, fonda le sue idee.
L’Estate romana, in sostanza, ha cambiato abitudini, percezioni, costumi, e lo ha fatto naturalmente, senza che ce ne accorgessimo. «Il senso dell’effimero non riguarda la provvisorietà di un fatto perché gli avvenimenti vengono inevitabilmente cancellati – disse qualche anno fa Renato Nicolini, scomparso nel 2012 –. L’avvenimento effimero è quello che lascia dei segni nella nostra memoria, nelle nostre emozioni, nelle nostre passioni. Credo che sia necessario accettare il fatto che la nostra vita sia effimera, che le cose cambiano, per riuscire a mantenere il senso».
La frase è riportata nel recente volume “Estate romana. Tempi e pratiche della città effimera” di Federica Fava (edizioni Quodlibet). Una guida utile per orientarsi in quella stagione e nelle sue attuali conseguenze, anche grazie ai ricordi di chi la attraversò.