Nella Parigi del Conte di Montecristo raccontata da Dumas non è raro trovare accenni a pranzi fissati per le ore dieci mattutine o cene abbondanti programmate a notte fonda. Scorrendo i Racconti di Pietroburgo di Nikolai Gogol’, d’altra parte, si scopre che spesso si pranza verso le quattro pomeridiane. Errori di traduzione o fantasie autorali? Ovviamente no. Si tratta della normalità per quei tempi, il contesto era diverso e le convenzioni pure. Che sono, appunto, mutate. In questo agile saggio, lo storico Alessandro Barbero chiarisce tutto e indaga il cambiamento che si è verificato tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, quando le classi agiate europee hanno modificato l’orario dei pasti, facendo slittare in avanti l’orario del pasto principale della giornata. Sempre più avanti in un percorso durato fino ai primi del Novecento, prima di iniziare la corsa all’indietro, riportando le lancette a orari per noi più consueti. Non si tratta solo di soddisfare una curiosità – dopotutto, a che ora si mangiasse nell’Europa di due o tre secoli fa potrebbe destare l’interesse solo dello storico e di pochi altri – bensì da queste consuetudini si comprende anche l’organizzazione di una società che stava cambiando, che entrava prima nell’Illuminismo e poi nell’età industriale, fino agli albori della Belle Epoque. Kant aveva un modo tutto suo di regolare i pasti: s’alzava prestissimo, andava avanti a tazze di tè per tutto il mattino senza toccare cibo. Pranzo all’una che poteva protrarsi fino alle cinque. Niente cena e a letto presto. Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. In Francia, ancora nel 1802, “dei borghesi invitavano a pranzo un ospite straniero per le tre; nella remota Bretagna, nel 1804 si faceva ancora tranquillamente il souper, e addirittura alle sei di sera”. Lo sappiamo bene se tra le mani c’è capitato un Balzac qualsiasi, che più d’una volta mette bene in evidenza come i cittadini fossero abituati ormai a pranzare alle due e i campagnoli rimasti ancorati a “regole inflessibili” che prevedevano il pasto principale fissato nel pomeriggio inoltrato. A Londra, poi, già nel Settecento “il bel mondo pranzava abbastanza tardi, lo spostamento del dinner verso le ore serali ha lasciato tante tracce”. John Quincy Adams, futuro presidente degli Stati Uniti, nel 1794 fu invitato a pranzo nella City alle cinque del pomeriggio. Troviamo negli archivi della Camera dei comuni una discussione sull’eventualità di aprire un ristorante all’interno dell’edificio, consentendo così ai membri del Parlamento di pranzare lì, visto che (e siamo nel 1863) l’ora del dinner è ormai slittata fino alle 19.30. Osserva Barbero che “la trasformazione del sistema dei pasti ebbe delle conseguenze linguistiche i cui effetti si risentono ancora adesso. Il primo problema nasceva dal trionfo della colazione à la fourchette. Come distinguere questo secondo déjeneur, più consistente, dal rinfresco che si prende appena svegli, e che fino ad allora si era sempre chiamato, appunto, déjeneur?”. È un gioco di parole, in fin dei conti, ma che ha a lungo segnato convenzioni europee marcando al contempo rigidi steccati tra le classi più agiate e quelle più popolari. Lo s’è visto bene negli esempi relativi alla società francese, ma lo stesso discorso vale anche per l’Inghilterra, dove a Palazzo reale era abitudine pranzare tra le tre e le quattro ma la moda siamo nel Settecento – posticipava il pasto principale addirittura tra le quattro e le sei pomeridiane. Occorreva adattarsi. Alla fine, il più vicino a noi è Rousseau. Lui gli ospiti li invitava a mezzogiorno, “in modo da avere il tempo di chiacchierare un po` prima di sedersi a tavola”. Ma alle due e mezza “il pranzo è comunque finito”.