Si nascondeva volentieri dietro il velo dell’ironia dicendo di essere un «filosofo della domenica». In verità, coltivava in cuor suo l’idea che fosse possibile un Sistema del Sapere infinitamente più potente dei vaghi pensieri concepiti dai filosofi universitari. Si sentiva una spanna al di sopra di loro. Non per competenze specifiche, ma per volontà teoretica e perché riteneva di avere portato la filosofia nel punto più alto in cui essa può stare in una società: accanto al potere politico, in funzione di consigliera del principe, prossima agli arcana imperii. Era la posizione a cui lui, unico tra i filosofi contemporanei, era arrivato in qualità di consulente del governo francese per gli affari economici internazionali. Dal suo ufficio ministeriale del Quai de Branly, ai piedi della Tour Eiffel, contemplavapercosi dire fo spirito delmondo.
Non c’è dubbio che Alexandre Kojeve sia stato una delle figure più inconsuete e seducenti del Novecento. I due intriganti testi curati da Marco Filoni, inconfondibilmente kojeviani nella loro diversità, ne sono l’ennesima conferma: si tratta della divagazione giovanile sulla pittura di Kandinsky (traduzione di Antonio Gnoli, Quodlibet, pagg. 85, euro 10) e della tetragona Introduzione al Sistema del Sapere. Il Concetto e il Tempo (NeriPozza, pagg. 235, euro 30). Nato a Mosca nel 1902 - per parte di madre era nipote di Kandinskij - a diciott'anni Kojève lasciò la Russia soggiornando prima a Varsavia, poi a Heidelberg, dove si addottorò con una tesi sul pensiero religioso di Solov'zv presentata da Jaspers, quindi a Berlino. Nel 1926 si trasferì a Parigi, dove si stabilì. Durante la Resistenza combatte da clandestino agli ordini di Jean Monnet, che dopo il 1945 fu uno dei padri-fondatori dell’Europa unita. Fu Monnet che lo promosse a grand commis della Quarta Repubblica nel Secrétariat d'Etat aux affaires economiques.
La leggenda di Kojève nacque intorno ai seminari che egli tenne fra il 1933 e il 1936 all’École Pratiquedes Hautes Etudes, traducendo e commentando la Fenomenologia dello spirito di Hegel. Per lui, russo, tradurre dal tedesco in francese era passare da una lingua straniera a un’altra. Eppure, questo arduo trasbordo ermeneutico gli riuscì alla perfezione. Alla sua scuola formò una promettente schiera della giovane intellighenzia parigina di allora, iniettando nel1’ambiente cartesiano il virus di Hegel. Con snobistico distacco egli stesso considerava quell’esperienza come una semplice palestra di pensiero, tanto che il testo dei seminari fu pubblicato solo nel 1947 per iniziativa di Queneau (in Italia è stato tradotto e curato da Gian Franco Frigo per Adelphi).
Kojève sapeva incantare i suoi interlocutori. Inamovibile nelle convinzioni ultime, era disposto al compromesso e alla trattativa nelle penultime. Granitico nei fondamentali, si muoveva con sorniona duttilità su tutti gli altri piani. Imprevedibile e provocatorio nelle tesi, diventava sistematico nelle conclusioni. Alla scontata intentio recta preferiva strategie di comunicazione oblique. Per esempio la reticenza, quando si trattava di definire il rapporto dell’intellettuale con il potere. Oppure la provocazione, come nel caso della tesi sulla fine della storia, con cui sosteneva che gli eventi hanno raggiunto il punto di saturazione e «non ci Sarà mai più nulla di nuovo sulla terra».
Nei due mestiche Marco Filoni presenta trovano spazio al tempo stesso l’inflessibile volontà di sistema e il capriccio snobistico. Il saggio sulla pittura astratta di Kandiskij è un delizioso esempio del gusto di Kojève per la provocazione. L’arte astratta, come si sa, rivoluziono il Concetto di pittura. Da quando intorno al 1913 Kandinskij scoprì che «l’oggetto nuoceva» ai suoi quadri, e che le forme e i colori non avevano bisogno di un contenuto per esprimere la loro bellezza, si aprì un nuovo orizzonte: la possibilità di non rappresentare nulla e di dipingere solo forme, !inee e colori. (cioè bellezza allo stato puro. Ma qual è il significato della pittura astratta? Con lucidità sistematica, Kojève propone una deduzione sistematica delle arti e delle differenti specie di pittura, giungendo a una conclusione paradossale, eppure coerente e in fondo convincente. «Astratta» e propriamente l’arte rappresentativa tradizionale, nel senso che «astrae» dal mondo degli oggetti motivi che raffigura. Invece la pittura cosiddetta «astratta» - che in verità non «astrae» nulla dal mondo bensì crea, di suo, forme belle - merita per Kojève il nome di pittura concreta.
Che con il metodo della paradossalità e dell’ironia Kojève non intendesse scherzare, ma al contrario costruire, lo dimostra la sua Introduzione al Sistema del Sapere. Filoni ha tradotto una prima parte della terza introduzione «storica», pubblicata con il titolo Saggio di una storia ragionata della filosofia pagana. Kojève portò a termine inoltre un’introduzione psicologica e una logica. Il suo intento era di riesporre in modo sistematico l’intera enciclopedia hegeliana delle scienze; che considerava espressione del Sapere assoluto. A chi, per spingerlo a dubitare della sua pretesa di assolutezza, gli chiedeva che fine avesse fatto il buon Dio, replicava: «Dieu, c'est mon collegue!>~. Allo storicismo e al relativismo che dilagavano, contrapponeva la convinzione che la Verità è nella storia, ma la storia non è la Verità. Dove la Verità è raggiunta, cessa l'Azione e la Storia finisce.
Kojève non indulgeva però a una visione apocalittica del tramonto, a la Spengler. Guardava al regresso dell’uomo contemporaneo, alla naturalità con nonchalance. Quando Dio muore, o si ritira, l’uomo si animalizza, inebriandosi nell’edonismo delle «extases ludiques »: gioco, matematiche, sesso. In un sistema ogni giorno più complesso l’uomo diventa sempre più elementare. Ma questa non è una catastrofe. Di fonte alla vittoria del Servo nell'Impero omogeneo e universale, alla fine Kojève si rifugia nello «snobismo» concepito come disciplina negatrice del dato naturale: impersonando, paradossalmente, tutta l’eleganza e la prodigalità aristocratica del Signore.