Recensioni / L’adolescenza lieve di Trieste

Una generazione aveva sperato in un’altra patria e in un’altra Europa. Giani Stuparich la raccontò in «Un anno di scuola», ambientato nel 1909

In un articolo di molti decenni fa, Pancrazi scriveva che, leggendo gli scrittori triestini, si aveva l’impressione che in nessun’altra città italiana si fosse stati così amici sui banchi di scuola, specialmente al liceo. Si riferiva in particolare alla generazione fondatrice della letteratura triestina, formatasi nella Trieste absburgica alla vigilia della Grande guerra, che avrebbe falciato tanti suoi protagonisti e distrutto le loro speranze di un’Europa diversa, creandone invece una in cui sarebbero divampati odi nazionali ancor più feroci, sarebbero nate dittature disumane e si sarebbero consumati nuovi massacri.
Su quei banchi di scuola – specialmente del liceo «Dante», che tanti anni più tardi sarebbe divenuto pure il mio – sedevano studenti quali Slataper, Stuparich, Devescovi, Spaini e altri, alcuni caduti giovanissimi poco dopo in guerra e alcuni vissuti sino a tarda età. Ho avuto la fortuna di conoscere da vicino qualcuno di quella grande generazione, come Biagio Marin e Guido Devescovi, anch’egli volontario di guerra e medaglia d’argento, germanista assai apprezzato da Thomas Mann per il suo saggio, scritto dopo la Seconda guerra mondiale, sul Doktor Faustus.
Attraverso i loro racconti diretti e vissuti, non ricordi del passato ma passione viva e presente, ho conosciuto quel mondo tanto precedente alla mia nascita, un po’ come se l’avessi condiviso; come se fossi stato un po’ anch’io tra quei banchi. Un mondo che aveva mantenuto, anche tanti anni dopo, l’asprezza dell’adolescenza; quasi un contrappeso a un’altra e opposta caratteristica triestina, letterariamente molto più grande, l’ironica «senilità» sveviana. Una volta Marin e Devescovi, ultraottantenni, litigarono e non si rivolsero più la parola, ma ognuno dei due mi chiedeva sempre notizie dell’altro.
Come rivela il breve romanzo Un anno di scuola di Giani Stuparich, ora ripubblicato da Quodlibet con un’eccellente postfazione di Giuseppe Sandrini, quegli anni di liceo appaiono un inizio e in un certo modo una fine della vita, individuale e generazionale; un’attesa della vita che sfocia nella disgregazione della vita stessa e delle speranze di costruirla. Pubblicato nel 1929, il romanzo è ambientato nel 1909, ma l’omonimo bel film del 1977 di Franco Giraldi, finissimo regista di frontiera, colloca la vicenda nel 1913-14, alla vigilia della Grande guerra, che incombe su quelle struggenti inquietudini e su quei febbrili progetti di vita, di cultura, di amore.
È la storia – vera – della prima ragazza che frequenta il liceo e dei suoi compagni che si innamorano di lei, personaggi che si ispirano a tre figure della cultura triestina: lo stesso Giani Stuparich, Alberto Spaini, saggista e precoce traduttore di Kafka, e Ruggero Timeus Fauro, che pochi anni dopo sarebbe divenuto un capofila dell’irredentismo nazionalista, in contrapposizione anche dura a quello democratico di Scipio Slataper – morti entrambi nel primo anno di guerra. La protagonista femminile, Edda Marty – realmente esistita e più tardi divenuta, in Germania, una nota pediatra – viene colta nella sua freschezza e nei suoi impetuosi sentimenti, nella sua intensa rivendicazione femminile in difficile rapporto con l’amore. Ho visto girare alcune scene del film di Giraldi. Ricordo che Guido Devescovi, in età avanzata, spiegava e mostrava ai giovani attori gesti, atteggiamenti, forme di comportamento della sua giovinezza, dell’epoca in cui si svolgeva la vicenda, e che essi dovevano quindi imparare. Forse si sentiva un po’ un vecchio Faust che per qualche ora può credere di incontrare se stesso ringiovanito.
Ciò che sta dietro questo incantevole romanzo breve o racconto lungo, lieve anche nei momenti drammatici, viene narrato in un’interessantissima e finora inedita lettera, inclusa nel volume, di Stuparich dal fronte, nel 1916, a Elody Oblath, una delle «tre amiche» le cui lettere a Scipio Slataper costituiscono un grande ritratto di quella Trieste e di quella generazione, un romanzo epistolare costruito con la vita. In quella lettera a Elody – che diverrà poi sua moglie, nell’endogamia spirituale di quella generazione letteraria – Stuparich parla di quegli anni, del suo amore corrisposto per Edda Marty (il cui vero nome era Maria Prebil), di quella purissima, passionale e talora esaltata simbiosi di amore e amicizia che porta a vagheggiamenti di suicidio e al vero e per fortuna fallito tentativo di suicidio di uno dei tre, Spaini, sopravvissuto felicemente sino a tarda età, tanto che ha potuto recensire cinquant’anni dopo il mio Mito absburgico.
La fine Ottocento-inizio Novecento è un’epoca di straordinaria creatività, rottura, creazione in tutta Europa. Su quella soglia stanno, come statue sacrificali, alcune figure femminili, donne che muoiono di propria mano affinché l’uomo amato viva e possa lavorare e creare e anche per non cancellarsi nella sua ombra. Gioietta, una delle «tre amiche», si suicida per Slataper, Irma Seidler per il giovane Lukács destinato a una maestosa longevità, Nadia per Michelstaedter. Figure ibseniane di vita sacrificata all’arte o di radicale emancipazione; figure che stanno sul limitare del secolo come polene dagli occhi spalancati che sembrano scorgere imminenti catastrofi ancora invisibili agli altri.
Nel romanzo Edda Marty – come il suo modello reale nella vita – non cede a quest’ombra di dedizione e di morte; vivrà – dopo la fine del racconto – la sua vita, la sua libertà, il suo lavoro. E forse l’unico personaggio di Un anno di scuola rivolto verso il futuro; gli altri sembrano destinati a restare bloccati a quell’esperienza fondante e non realizzata, a quelle promesse non mantenute dalla Storia. Su Giani Stuparich ha pesato pure l’eredità di trovarsi a essere in qualche modo l’erede, il continuatore di Scipio Slataper, a lui così vicino e da lui così diverso, con l’aura del creatore della triestinità, con il suo aspro e lirico Mio Carso, incomparabile alla grandezza di Svevo o di Saba ma in qualche modo pietra angolare di quella triestinità.
Stuparich ha portato con rigore e dignità questa eredità slataperiana. Si è comportato esemplarmente nei tempi del fascismo, quando la sua medaglia d`oro avrebbe potuto dargli un grande ruolo, e nei tempi della Resistenza, pure incarcerato brevemente nella Risiera. L’angosciata e ferma denuncia del nazionalismo e del montante fascismo si avverte chiara e netta nel Colloquio con mio fratello (1925), il fratello Carlo suicidatosi per non cadere prigioniero degli austriaci, che lo avrebbero impiccato in quanto cittadino austriaco e dunque disertore che combatteva nell’esercito italiano contro l’Austria. Giani Stuparich non era dotato per il romanzo, come rivelano Ritorneranno (1941) e Simone (1953), romanzi decisamente deboli, ma ha scritto racconti che sono dei veri gioielli narrativi, quale L’isola (1942), forse il suo capolavoro, e Guerra del ’15, che è uno dei più forti libri sulla Grande guerra, da lui vissuta faccia a faccia con la morte. Ha continuato originariamente il sogno slataperiano di una variegata e concorde cultura europea, scrivendo ad esempio La nazione ceca (1916), civiltà che aveva conosciuto studiando, prima della guerra, all’università di Praga. Un ideale progetto europeo coltivato soprattutto a Firenze nel gruppo della «Voce» da lui frequentata, in un fervore di contatti, scambi e rapporti insieme personali e culturali, di cui testimonia il recentissimo volume Il bauletto di Pina Marini, nei Quaderni del Centro studi Biagio Marin diretto con strenua passione da Edda Serra, curato esemplarmente da Renzo Sanson, un volume che rende giustizia alla moglie di Marin, Pina, al suo riserbo, alla sua inflessibile e silenziosa dirittura, alla sua solitudine vissuta ingiustamente nell’ombra. Sono lettere ad amici e note su autori che sono tra i più vivi protagonisti della stagione vociana, da Prezzolini ai fratelli Slataper a Virgilio Giotti, grande e ancor oggi non abbastanza conosciuto poeta in dialetto triestino, e a personalità della cultura russa e francese.
Cose e valori di sempre e forse di ieri o dell’altro ieri. C’è una profonda malinconia nella dignità e forse nella stilizzazione con cui Stuparich ha vissuto lo svanire di tante speranze di quei giorni lontani, in cui lui e gli amici avevano creduto in un’altra Europa e in un’altra Italia.