Una rarità assoluta questa pubblicata dalla Quodlibet. Si tratta di un manoscritto ritrovato fra le carte del grande studioso Alexandre Kojève sullo zio, il pittore Wassily Kandinsky. E’ una prima mondiale, inedita persino in Francia, paese d’adozione dei due emigrati russi. Fa parte di “Kandinsky” (90 pagine, 10 euro), da poco in libreria e a cura dell’ottimo Marco Filoni. “Ciò che più colpiva di Kandinsky, in tutti coloro che l’hanno conosciuto intimamente, è la straordinaria armonia della sua intera vita, così come della personalità stessa che questa vita esprimeva. Vita senza conflitti,
senza scontri, senza sconvolgimenti intimi o esterni”. Una personalità senza angoli acuti quella di Kandinsky, uscita dalla mano dell’affascinante interprete di Hegel. “Così, mentre comparando la vita di Kandinsky alle grandi esistenze romantiche
si sarebbe tentati di trovarla ‘insipida’ o ‘banale’, non si potrebbe rettificare questo giudizio se non constatando che questa vita è stata essenzialmente classica: cioè lucida e serena, e straordinariamente equilibrata”. Al nipote affettuoso dedicò lo
splendido Aquarell für Kojève, riprodotto nel libretto. Kojève è diventato un nome mitico. Koyré rimase “soggiogato dal fascino di questo giovane mostruosamente intelligente e straordinariamente colto”. Era lo stalinista preferito di Allan Bloom, spedito da Leo Strauss a Parigi nel 1953 a studiare con l’amico esule. Nei “Mémoires” di Raymond Aron viene semplicemente chiamato “il filosofo della domenica”. Per Lacan fu “la quintessenza dell’avanguardia intellettuale”. Dal 1933 al 1939
spiegò Hegel a un parterre de rois d’eccezione, che vantava Bataille, Breton, Caillois, Levinas, Lacan e Queneau. Fu a partire dal gennaio del 1934, quando Kandinsky e la moglie Nina si stabilirono alla periferia di Parigi che i rapporti fra i due si infittirono.
“L’uomo che, a trent’anni, ha potuto abbandonare una brillante carriera di studioso e di giurista per dedicarsi interamente alla pittura, non ignorava certo la ‘passione’. Ma poiché il bisogno dell’arte e la ricerca scientifica non facevano che esprimere
due aspetti complementari di una personalità unica in se stessa, questa trasposizione radicale dell’esistenza non è stata uno sconvolgimento e non ha provocato conflitti”. E fu senza sconvolgimenti che Kandinsky visse e lavorò, in atmosfere politiche
differenti e in ambienti culturali molto diversi fra loro. Kojève era devoto come in queste pagine, grave e profondo, scaltro e ingenuo. “Multiforme egli stesso, integrava facilmente tutto ciò che era vero, bello e buono – scrive dello zia ‘Vassia’ – Solo il male, in tutte le sue forme, era per lui assolutamente inaccettabile. È così che ha
potuto dipingere e insegnare nella Germania di Weimar, ma tutto ciò che egli ha voluto accettare dal governo hitleriano fu un visto d’uscita. È forse contemplando l’opera pittorica di Kandinsky che lo si comprende meglio in quanto uomo”. Era questo che restava nella memoria del giovane filosofo, “la calma equilibrata e serena d’una
ricchezza contrappuntistica e armoniosa, che resta concreta nella sua universalità”. Kandinsky morì a Neuilly il 13 dicembre del 1944. A un Kojève in divisa “da marmittone” un giorno si avvicina un allievo, e gli dice: “Allora, professore, vedo che è passato finalmente all’azione”. A Marsiglia finì in mano ai tedeschi, scrisse una nota maudit in cui si sentiva giustificato a collaborare con il Reich. Non voleva rinunciare agli ex vichyssois, solo ai “reazionari ottusi e incorreggibili e agli opportunisti”. Fino alla fine provocatorio, sovversivo e pieno di paradossi.