Recensioni / Cento case popolari

Le fotografie di Fabio Mantovani di dieci case popolari italiane sono un viaggio dal nord al sud Italia per restituire del paese una sola immagine, mettendo a fuoco una stagione e una progettualità architettonica per la collettività oggi scomparse. Ma soprattutto sono fotografie la cui potenza estetica non è legata all’attrattiva per la decadenza, nonostante soggetti che al primo impatto potrebbero essere associati al degrado. I passi sordi risuonanti nei rossi porticati del gallaratese Monte Amiata, il rumore metallico delle tendine scostate dal portinaio al Cielo Alto di Cervinia: gli esseri umani (almeno uno in ogni scatto, ma piccoli, anonimi, sfocati o voltati di spalle) servono solo a dare un’idea delle proporzioni e sono il perturbante biologico di fascinosissime utopie in cemento, belle a dispetto della loro (non sempre, ma quasi) infernale inabitabilità, che neppure traspare, perché non è questo il punto. Chi osservando le spettacolari fotografie di un vulcano in eruzione penserebbe alle persone che potrebbero trovarsi nei paraggi? Allo stesso modo osservando un ragazzo passeggiare nei luridi porticati interni delle Vele di Scampia si godono in realtà la fredda geometria creata dalla ringhiera, il senso di alienante ripetizione dei piloni imbrattati, la ruggine semi-illuminata dal sole.
La vertigine estetica deriva dall’instaurarsi di certi legami metaforici tra le connessioni inter-sinaptiche della mente dello spettatore e le strutture granitiche di questi edifici. Il sentire con loro, il sorgere dell’innaturale desiderio di empatizzare col cemento, di farsi inferriate e ballatoi. Le fotografie scatenano una tensione verso l’assoluto che è puro sublime romantico: in questo caso, al contrario di una veduta friedrichiana, l’infinito della visione non è caotico, ma il tentativo umano di ricomporre il caos in ripetitive ringhiere scale grate androni e porticati, in realtà solo nascondendolo. Esso infatti riaffiora perturbante in queste gelide e implacabili geometrie: cornicioni scrostati e anneriti, panni stesi a punteggiare i lineari balconi delle Vele, bambini sul tetto del quartiere Zen, presenze umane formicanti nel quartiere Rozzol Melara, che pare non averle previste. Le persone presenti sembrano comparse, mentre i veri “abitanti”, sempre che esistano, restano chiusi in casa e sono solo stati un pretesto per ergere queste cattedrali contemporanee, essendo l’intenzione inconscia dei loro architetti soltanto quella di gareggiare con la natura replicandone l’infinitezza, di ingabbiare la distesa marina dipinta da Friedrich nella verticalità del Quartiere Forte Quezzi di Genova, che pure sul mare si affaccia, facendolo sembrare una pozzanghera.