Recensioni / Carla Lonzi in controluce

Per tracciare un profilo di Carla Lonzi (1931-1982) bisogna muoversi su un crinale scosceso e agire su una tastiera complessa che abbraccia una stagione cruciale della storia e della cultura italiana facendone, per la storiografia degli anni Duemila, un caso emblematico e centrale nella comprensione del secondo dopoguerra. Eppure, sebbene si lavori su cronologie vicine nel tempo, è un’indagine che si muove per indizi, su un numero di documenti di prima mano tutto sommato limitato (seppure eloquente) e che richiede soprattutto un’attenta lettura dei testi: la Lonzi parla soprattutto attraverso i propri scritti editi, ed è da quelli, come in un lavoro di archeologia, che si deve dedurre il massimo di informazione dalle evidenze materiali del reperto e che affiora in controluce la trama di un racconto sullo sfondo di una stagione di grandi slanci e di profonda crisi. È quanto emerge dalla lettura di Un margine che sfugge. Carla Lonzi e l’arte in Italia 1955-1970 di Laura lamurri (Quodlibet, Macerata 2016), il contributo più ampio e analitico sul rapporto fra la Lonzi e il mondo delle arti visive, entro il quale matura una riflessione che la condurrà, in meno di quindici anni, a un allontanamento definitivo da queste in favore del femminismo.
È proprio nella storia dell’arte e nella intensa frequentazione con gli artisti, infatti, come mette in rilievo Laura lamurri, che la Lonzi matura una progressiva insofferenza per il sistema delle arti, da cui prende le distanze in un processo di progressiva disaffezione, sentendosi isolata da quel sistema stesso e riconoscendo nei propri diari, con amara lucidità, di aver giocato soprattutto il ruolo di “una spettatrice ideale”. In questa posizione angolata, meno coinvolta dei suoi colleghi uomini nel tentativo di costruire movimenti o inventare situazioni, dalle pagine de “L’Approdo Letterario”, a cui collabora dal 1958, di “Marcatré” e di altre riviste dell’epoca, Carla Lonzi costituisce una delle voci critiche più acute e autonome. La sua scelta di campo è chiara fin da subito: a sé attribuisce il ruolo dell’osservatore che commenta le cose posandovi uno sguardo limpido e penetrante, fino alla decisione di mettersi in secondo piano come interprete in favore di un nuovo strumento tecnico, il registratore, che la conduce a elaborare un nuovo e autonomo modo di fare critica che sarà il grande protagonista di Autoritratto, il fondamentale libro pubblicato da De Donato nel 1969.
Fedele alla lezione dell’amato/odiato maestro Roberto Longhi, con cui non mancheranno momenti di attrito fino a una rottura definitiva e irreversibile, l’insegnamento di questi continuerà ad agire nella sua riflessione sui modi e gli strumenti del fare critica anche quando comincerà a interessarsi di temi diametralmente opposti alle predilezioni e agli interessi dello studioso: Lonzi rimane longhiana sia quando si occuperà di Informale, con un occhio a Tapié e una predilezione per Arcangeli a data 1957, sia quando sposerà la causa delle neoavanguardie e stringerà solidi legami di amicizia con Giulio Paolini e Luciano Fabro.
In prima battuta, nei tempi della prima collaborazione con la galleria torinese Notizie di Luciano Pistoi in cui più forte si avverte il passaggio dall’arte “autre” alle istanze poveriste, la principale preoccupazione di Carla Lonzi è di trovare un linguaggio adeguato alla nuova pittura, capace di aderire allo specifico degli oggetti nella stessa maniera in cui l’alata prosa longhiana era in grado di una restituzione del punto di stile attraverso la scrittura. Lo scrive chiaramente in una lettera del 29 dicembre 1959 all’amica compagna di studi Marisa Volpi, destinataria dell’unico lungo carteggio conservatosi, che fa da guida a un lungo tratto del libro di Laura lamurri: “c’è un margine che sfugge a questo determinismo” e “Uno scrupolo personale quando scrivo: evitare tutti i vocaboli della rettorica informale o della letteratura informale [...] ma ormai ci siamo dentro e vengono senza che ce ne accorgiamo (con spavento)”. Ma il vero scarto avviene quando comincia a mettere a punto le interviste che confluiranno in Autoritratto. Facendo proprie le pratiche di raccolta documentaria dell’antropologia, infatti, comincia a registrare le proprie conversazioni con gli artisti e ne dà una versione a stampa sotto forma di Discorsi sul “Marcatré” o in altre sedi. La conversazione, fatta di digressioni personali e di racconti che non sempre hanno attinenza con il lavoro dell’artista, diventa un nuovo genere in cui il critico si assume un ruolo maieutico senza la pretesa di imporre un proprio pensiero. Da qui, a ridosso del soggiorno americano con il compagno scultore Pietro Consagra fra 1966 e 1967, comincia una complessa operazione di montaggio di queste dentro la cornice di un cenacolo amicale in cui ciascun artista interpreta un ruolo e introduce temi cogenti dell’attualità e non solo delle arti visive. Al critico spetta l’operazione di montaggio di questi materiali, che vanno a collocarsi, scrive lamurri, in “un tempo disarticolato e stratificato, reso inservibile ai fini della costruzione di una storia lineare dal procedimento del montaggio, e tuttavia capace di mostrare i segni di una sedimentazione interna, di una successione cronologica nei discorsi e nelle vite degli artisti partecipanti all`immaginario convivio”. È qui che si mostra la propria insofferenza verso il sistema: dalle conversazioni con Carla Accardi, unica donna presente in Autoritratto e per un lungo periodo sodale della Lonzi, affiora il maturare di una coscienza nuova, di un nuovo compito per il quale si sente più portata, fino all`abbandono della pratica critica come atto di protesta radicale per quello che si stava chiarendo sempre più, ai suoi occhi, come un autoritario atto di potere.