Scritto nei primi anni trenta, il «Marco Polo», riproposto da Quodlibet
In bilico fra storia, narrativa e poesia, il Marco Polo di Viktor Šklovskij ora ripubblicato da Quodlibet nella traduzione di Maria Olsufieva, con una nota di Giovanni Maccari (pp. 242, €15,00), è un libro spiazzante. Racconta la vita di Marco Polo e il suo lungo viaggio nelle terre del Kubilay Khan, ma lo fa alla maniera di Šklovskij, in un modo che sorprende, disorienta e a tratti affascina.
Uscì per la prima volta nel 1931 in una versione breve dal titolo La spia MarcoPolo, poi venne ampliato e rielaborato per comparire nella celebre collana di biografie ideata da Maksim Gor’kij «Vita di uomini straordinari», e fu poi più volte ripubblicato in Unione Sovietica come libro per ragazzi o d’avventura. Eppure è un’opera non facile, dal genere sfuggente, come tutte le opere di Šklovskij: costruito attraverso un montaggio di brani da Il Milione, incorniciati da una narrazione semplice, a volte primitiva, che li introduce, li commenta, a tratti divaga, ci parla delle ambientazioni e della geografia dell’Asia centrale, delle lingue e della cultura di quei popoli. Ci ritroviamo fra le steppe della Manciuria, o nel palazzo d’inverno del Kubilay Khan a Pechino, nel parco del suo palazzo estivo, fra cervi bianchi, daini, antilopi e uccelli d’ogni specie, fra i vicoli di Samarcanda o le strade in festa di Venezia.
La narrazione non è di quelle suggestive, d’atmosfera, ha piuttosto la ruvidità delle antiche relazioni di viaggio o delle cronache medievali: frasi elementari e potenti, che stupiscono e rimangono impresse, continuamente scandite da punti a capo che danno un rilievo nuovo e inatteso a luoghi e oggetti.
Scritto nei primi anni trenta, quando il regime staliniano non tollerava più gli esercizi funambolici del modernismo russo, il Marco Polo lascia intravedere, dietro al suo impianto storico e divulgativo, la prima vena avanguardista dello scrittore. Šklovskij aveva iniziato a pubblicare i suoi lavori di critico e teorico della letteratura scrivendo articoli come il celebre L’arte come procedimento (1917), l’atto di nascita del formalismo russo.
Qui parla per la prima volta dello straniamento come della principale tecnica letteraria: la vera letteratura consiste nel saper presentare oggetti e situazioni in un modo strano, nuovo, inatteso, come se li si vedesse per la prima volta, in modo che il lettore, sbarazzandosi dell’involucro di convenzioni in cui ogni cosa è avviluppata, ne possa cogliere la natura profonda.
Negli anni venti, Šklovskij era passato alla prosa autobiografica e aveva raccontato la sua storia e il suo tempo sempre con quello stile funambolico e avanguardistico, che l’epoca richiedeva. Ma alla fine degli anni venti il clima in Unione Sovietica era cambiato, e i critici formalisti vennero costretti a rinnegare il loro metodo; gli scrittori dovettero abbandonare i temi autobiografici e rivolgersi ai grandi eventi della storia sovietica o mondiale; gli intellettuali dai larghi orizzonti, come era Šklovskij, videro restringersi il loro campo di azione, mentre rimanevano aperti, ad esempio, la letteratura per bambini e per ragazzi. È in questo periodo che, dai procedimenti stilistici di Guerra e Pace, Šklovskij passò a studiare la vita e l’opera di uno sconosciuto scrittore popolare, Matvej Komarov, autore di innumerevoli best-sellers per nobili e mercanti russi del Settecento; ma l’attrazione del critico per chi seppe vedere il mondo con occhi nuovi, o semplicemente nuovi mondi, come Marco Polo, Tolstoj o Ejzenštejn, non lo abbandonò mai.