Recensioni / Riti urbani

Liberate lo spazio interno! Questo monito sprona e incalza i cammini delle comunità e dei soggetti nel mondo contemporaneo. Liberare lo spazio interno significa rinvenire i luoghi inediti dell’interiorità, uscire cioè dalla visione tardo-moderna e borghese secondo cui l’interiorità è strettamente legata al privatissimum.
Per secoli, in nome della riflessività e del raccoglimento interiore, abbiamo costruito piazze e chiese appellandoci alla capacità di distinguere nettamente l’interno dall’esterno. Per troppo tempo gli ariosi impeti dello spirito sono stati ammansiti da una cultura dell’interiorità domestica. Così facendo abbiamo circoscritto il perimetro dello spirituale ricorrendo alla costruzione sociale e giuridica del privato. Il mistico è diventato in questo modo un «ritirato», mentre la case che ormai abitiamo sempre più spesso hanno il nome e le sembianze di «appartamenti».
La vita appartata e domestica che abbiamo per secoli costruito è parte integrante di un gioco più ampio, quello che vede l’interiorità e la privatezza impegnate in un’opera di reciproco favore e sostegno. Due i luoghi antropologici e relazionali che hanno chiaramente avvertito le conseguenze di tale connubio: il rito e la città. Il primo è stato concepito per decenni alla luce di una devozione personale fatta di pratiche che restano individuali, benché svolte alla presenza di altre persone; la seconda è stata progettata come successione di edifici e di appartamenti, ignorando sovente che anche la vita «appartata» di una famiglia necessita di «interni urbani».
Nel campo di diverse discipline antropologiche e sociali va registrato un interesse crescente intorno al rito e alla ritualità. Ciò non è dovuto soltanto al nomadismo che sempre più qualifica la vita associata o al fatto che questa, specie nei grandi agglomerati urbani, si frammenti in singole tribù metropolitane.1 L’interesse per il rito viene a mio avviso giustificato dall’ambivalenza che profondamente lo identifica e dalla buona tendenza contemporanea a gestire creativamente, piuttosto che reprimere, il carico di ambiguità della vita e del mondo.
L’esempio dell’interiorità liturgica è quanto mai vivo ed eloquente. Lo spazio sociale in cui si svolgono i riti cristiani, benché delimitato da mura e perimetri, inaugura una nuova concezione dello «spazio interno» e dell’interiorità stessa.2 Il registro semantico e simbolico dell’ambivalenza costituisce il tono, nonché la sostanza di ciò che è interiore, nella prospettiva del rito.
Nella ritualità liturgico-sacramentale, infatti, «non vi è punto di vista, non vi è prospettiva: nessuno può stare al di là della scena, ma sempre e solo nella scena, all’interno della scena. Potremmo definire tutto questo come “interiorità liturgica”, ossia come uno “stare dentro” di tipo diverso da quello che caratterizza la devozione personale. Non si tratta, infatti, di uno stare “dentro se stessi” ma “dentro la scena a cui partecipano tutti i credenti”. Una interiorità intersoggettiva e non solipsistica, una interiorità ecclesiale e non narcisistica».3
L’uomo è capace di azioni liturgiche poiché, malgrado tutto, è sempre capace di dissetarsi alla fonte della coscienza simbolica. Quest’ultima non è consapevolezza chiara e netta di ciò che è privato rispetto a ciò che è pubblico, ma capacità di rinvenire i rimandi costanti e reciproci tra interiorità ed esteriorità. Ecco perché «il rito è l’impossibilità di un’interiorità religiosa indipendente dall’esteriorità religiosa (e viceversa)».4
Attraversare l’interiorità paradossale dei riti è oggi un’impresa collettiva che deve essere condotta in compagnia di ruoli solo apparentemente insoliti. La prospettiva peculiare di un urbanista o di un architetto, ad esempio, è in grado di sostenere e animare il cammino di molti. A questa idea, forse nconsapevolmente, si ispira il saggio di Francesco Lenzini. Obiettivo primario dell’autore è indagare i mutamenti e le trasformazioni in corso all’interno dello spazio pubblico in quanto spazio «altamente significativo».
Il proposito che anima l’intero volume è la ridefinizione del pubblico quale ambito non contrapposto, né meramente contiguo con la privatezza dell’intimità domestica. Se così fosse continueremmo a immaginare e vivere i luoghi pubblici delle nostre città come spazi semplicemente fruibili o accessibili.
Tanto nella progettazione urbanistica, quanto nelle pratiche rituali, il pubblico non coincide con ciò che semplicemente accoglie e connette. L’accessibilità non esaurisce le funzioni e i significati di una piazza o di un rito. La qualità relazionale dello spazio pubblico urbano risiede essenzialmente nell’essere una realtà segnata. La città diventa vivibile e percorribile in funzione della capacità di disegnare lo spazio aprendo nuove vie semantiche e simboliche.
In questo modo lo spazio pubblico diventa lo spazio delle pratiche (sociali, urbane o liturgico rituali) che insegnano il comune nel momento in cui vengono collettivamente svolte. Su questo terreno è possibile scorgere un’affinità costitutiva e programmatica tra il compito dell’architetto e quello del teologo. Entrambi sono infatti chiamati a tradurre in progetti urbani o in processi ecclesiali «gli impulsi socializzanti che connotano la realtà contemporanea» (8).
Oggi conviene, giustappunto, parlare di impulsi di socialità e non di società. La vita condotta in comune non ha più un volto univoco e facilmente delineabile. Le identità sociali sono sempre più simili a percorsi in continuo avanzamento d’opera, passibili di ripetuti contraccolpi e ravvedimenti. La fluidità della vita individuale e sociale non è solo una categoria interpretativa della realtà.
Urbanisti e teologi non possono sottovalutarla proprio perché a loro spetta il compito di scorgere processi nascenti e orientanti, lì dove il senso comune vede solo flussi anonimi e omogenei. La ridefinizione spaziale dell’interiorità liturgica e degli interni urbani non può fermarsi alla sintassi del «recinto sacro» o all’accessibilità degli spazi pubblici.
Non basta la dialettica dentro/fuori per immaginare gli spazi sempre più aperti e con-fluenti della ritualità contemporanea. Ecco perché è necessario che urbanisti e teologi osservino con interesse e stupore la fecondità pratica e simbolica delle «dinamiche progressive di avvicinamento orientato» (51).
I corridoi urbani e le vie di accesso ai luoghi non soltanto fisici dell’interiorità non sono strumenti utili a raggiungere un fine, né spazi d’incontro occasionale tra individui diversi, bensì esperienze interiormente sensate. Il percorso diventa esso stesso un luogo, conserva e reclama una sua interiorità nell’epoca dei cammini fluidi ed estemporanei. Le pratiche urbane ed ecclesiali che stanno nascendo da più parti, proprio in questi anni, additano esattamente la necessità di rileggere la chiesa e la città alla luce di una processualità graduale e orientante.

1 Cf. M. Maffesoli, Du nomadisme. Vagabondages initiatiques, Libraire générale française, Paris 1997; trad. it. Del nomadismo. Per una sociologia dell’erranza, Franco Angeli, Milano 2000.
2 Giulio Carlo Argan era solito definire lo spazio interno non come una zona circoscritta «da pareti in rapporto allo spazio che è fuori di esse. Quello spazio che diciamo interno è tale in rapporto all’essere umano che lo pensa come la dimensione propria della propria esistenza»: G.C. Argan, «Il problema dell’arredamento», in La casa. Quaderni di architettura e di critica, 2, 5s.
3 G. Bonaccorso, Il dono efficace. Rito e sacramento, Cittadella, Assisi 2010, 141.
4 Ivi, 14s.