Recensioni / Ma tu a che ora mangi?

Quodlibet ha recentemente dato alle stampe il curioso A che ora si mangia? dello storico italiano Alessandro Barbero

«Colazione? Hai invitato la gente a venire a capomattina? Vuoi dire che è arrivata gente qui all’alba e ha trovato il palazzo chiuso?» L’assessore alla cultura catanese se la prende con collaboratore che ha scritto «colazione» sull’invito: «E il pranzo allora come lo chiami, merendina?» Accade in Sicilian Tragedi di Ottavio Cappellani, prequel – con il senno di poi – di Sicilian comedi appena uscito da SEM (David Leavitt, fan e recensore sul «New York Times» del primo romanzo, ha accompagnato lo scrittore in un tour italiano in occasione del nuovo, altro spassoso accoppiamento tra mafia e Shakespeare). Il sud ha orari che slittano in avanti, con turbamento dei forestieri che si agitano se non mangiano sempre alla stessa ora. Va calcolata un’ora di fuso con Milano, e almeno un paio da Roma in giù, non solo per i pasti: le riunioni di redazione che in Ticino si fanno alle nove nei giornali italiani son fissate alle undici. Resta la questione lessicale: se ti invitano a pranzo, devi presentarti a sera o a mezzodì? Se ti invitano a colazione, intendono l’ora del breakfast – unico buco libero nelle agende degli indaffaratissimi manager – oppure il pasto di mezzogiorno? Verranno serviti caffè, muffin e succo d’arancia oppure spaghetti e cotoletta?
Una delle più celebri commedie di George Cukor era intitolata Pranzo alle otto. Girata nel 1933, pochi anni dopo la Grande Depressione, raccontava una cena più che formale (gli abiti sfoggiati da Jean Harlow non si indossano più neppure per andare alla Scala, non parliamo del Metropolitan a New York dove i melomani vanno con il maglione). Titolo originale Dinner at Eight. Resterebbe libero, per il mezzogiorno, soltanto «colazione» (ed è così che molti, per darsi un tono, chiamano quel che per gli americani sarebbe il lunch).
Non risolve le questioni, ma almeno spiega il perché della confusione, un libretto di Alessandro Barbero appena uscito da Quodlibet – nella collana internazionale e multilingue Quodlibet Elements, Forme e immagini della modernità. Lo avevamo conosciuto come romanziere, premio Strega nel 1996 con Bella vita e guerre altrui di Mr Pyle, gentiluomo: da leggere, se non lo avete ancora fatto, per il divertimento e la bravura nel rifare un diario settecentesco. E per misurare la distanza tra gli scrittori che oggi coltivano l’autofiction e chi invece inventava storie e personaggi.
Gli orari dei pasti sono una costruzione culturale, come altre cose che diamo per scontate. Nel nostro libro di lettura alle elementari di Bellinzona ricordiamo un capitolo intitolato La mazza del maiale, con tutti i dettagli: oggi sarebbe impugnato e censurato dagli animalisti e dai vegani. Cambiano a seconda dei paesi, delle classi sociali e delle epoche.
La rivoluzione – racconta Alessandro Barbero – avviene tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, quando i ricchi fanno slittare l’orario del pasto principale della giornata chiamato appunto, dîner in francese, dinner in inglese e pranzo in italiano. L’orario ritardato diventa uno status symbol: i contadini dovevano alzarsi presto per andare a lavorare nei campi e a mungere le mucche, solo i nullafacenti potevano dedicare la tarda mattinata alla toilette, con l’aiuto di un valletto o di una cameriera.
Nei romanzi non si fa quasi mai colazione – nel senso della prima colazione, o breakfast – perché le cene e i pranzi sono molto più utili alla trama, sosteneva un critico letterario di cui abbiamo dimenticato il nome. Vero: riuscite a immaginare una proposta di matrimonio o un tradimento passionale all’ora del caffellatte? Molto meglio lo champagne. Per questo, fa notare Alessandro Barbero con l’occhio dello storico e non del narratore, nei romanzi l’orario dei pasti viene menzionato spessissimo.
La moda ottocentesca del mettersi a tavola sempre più tardi (nel Settecento mangiavano più o meno come noi, con una colazione al mattino, un pasto principale tra mezzogiorno e le due e un pasto serale più leggero) rende ambiguo il termine «pranzo». Comincia a significare «pasto principale della giornata», slegato quindi dall’orario in cui viene consumato: le cinque, le sei anche le sette del pomeriggio. Ma per chi lavora – come si lavorava una volta, più pesantemente di adesso – il ritmo dei pasti modaioli comporta troppe ore senza cibo. Viene introdotto un pasto a metà della giornata, rimasto il più importante fino a quando le donne non lavoravano, e si tornava a casa per mangiare.

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