Recensioni / La penna è il bisturi dell’arte

Tra le caratteristiche connotanti l’opera di Edgar Allan Poe, e tali da rafforzarne la fama, c’è senz’altro la febbricitante dimensione visiva: che si parli della sua produzione orrorosa/fantastica, o invece di quella satirica/comica – registri in realtà non in opposizione, e comunque tali da suscitare qui e là imbarazzi sulle intenzioni dell’autore – si tratta di pagine dove la provocazione è fervida di immagini. Tanto da ispirare innumerevoli trasposizioni su schermo; ma già prima e fondamentalmente opere d’illustratori, e “Non è forse un caso che Poe, tra gli scrittori moderni, sia quello che viene maggiormente illustrato”. Tra i molti misuratisi con un simile bacino di fantasie, il trevisano Alberto Martini (1876-1954) figura certo tra gli eccellenti, con una produzione che incalza l’opera di Poe a tutto campo, in termini originalissimi ma con tale impatto da far considerare almeno un certo numero di queste tavole come ormai “classiche”. Si pensi al mandala oscuro di Morella (1905-07), con il suo gioco di specchi e di scale, e quegli occhi che sbucano amari, o alla dentatura d’ossessione entro le tenebre di Bérénice (1905: si noti la titolatura in francese, per il tramite baudelairiano); alla maschera tremenda de la Mort rouge (1908) con figurette da Trionfo della morte tessute tra i pizzi del collettone, o al bellissimo L’île de la Fée (1909-10) in cui un viso da diva del muto si staglia sul mormorio d’ombre dell’isola meravigliosa. O ancora al famoso e spesso proposto Le Portrait ovale (1905-07) dove una cornice di candele funebri corona un viso che illanguidisce e muore, come sotto i nostri occhi, nel riflesso fatale del dipinto. Altre tavole invece sono meno note al grande pubblico, e benemerito giunge ora questo volume di Alessandro Botta edito da Quodlibet, nella collana “Biblioteca Passaré” patrocinata dall’omonima fondazione: uno studio ricco e illustratissimo che dedica all’avventura artistica quasi quarantennale dell’inseguimento di Poe da parte di Martini – a partire dal 1905, quando è artista già affermato – un’attenta disamina. Vi si sgrana un itinerario che da influssi avvertibili di modelli stranieri traghetta verso soluzioni sempre più personali: immagini da fiaba grottesca quasi bolle borbogliate dai sogni, a fermare come per un attimo quel singolo particolare del racconto prima che risprofondi nel magma immaginale, con un pro- cedimento di visione/deformazione assolutamente congruo alla scrittura di Poe. La scelta stessa di illustrarlo sempre a penna e inchiostro di china (“La penna è il bisturi dell’arte”, scrive Martini) pare inseguire lo scrittore nei suoi stessi strumenti di lavoro e quasi nel ductus. Il volume, sorto da una costola della tesi di laurea magistrale discussa da Botta, ha anzitutto il pregio di dar conto della reazione per così dire – di chimica dell’immaginario tra le fortune italiane di Poe e l’opera di Martini; esamina le risposte critiche (anche avvilenti) fin dalla prima stagione della sua produzione e il ruolo-chiave dell’instancabile promotore Vittorio Pica; segue le avventure dell’artista attraverso grandi eventi internazionali (Biennale di Venezia 1909, Salon de l’Estampe di Bruxelles e DOC (Esposizione di belle arti a Roma 1910), fino alla consacrazione in Inghilterra a “Italian pen-and-ink genius” (1914); e guarda alla produzione successiva, che pure vede rarefarsi le tavole su Poe, fino alla morte di Martini e ai suoi successi postumi. Tuffò ciò in una prima parte dello studio, sulla fortuna di un ciclo illustrato. Cui segue – dopo la festa per gli occhi delle centocinque tavole del corpus poesco – una seconda parte: a permettere un accesso ideale al laboratorio dell’artista, e al repertorio di fonti e modelli (di dignità svariatissima, e spesso da riviste) a disposizione per le sue libere riletture.