Recensioni / Menna. La ragionevole eversione

Ricerca artistica e domanda sociale: urgenza del dialogo tra saperi e istituzioni

Pubblichiamo stralci dall’articolo «Lavoro artistico e domanda sociale», scritto da Filiberto Menna per Paese Sera nel 1978. Larticolo è raccolto, insieme a quelli scritti per il Mattino e l’Unità, nel volume «Filiberto Menna - Cronache dagli anni Settanta» edito da Quodlibet. Ringraziamo l’editore per la concessione alla pubblicazione.

Discutere oggi del problema dell’arte e della cultura in generale vuol dire porre la questione dei rapporti tra questi problemi e le istituzioni pubbliche, da un lato, e la domanda sociale di massa dall’altro. (...)
Troppo spesso l’artista e il critico si sentono oggi investiti di una nuova missione, quella della animazione culturale, di interpreti e provocatori della creatività di base, quasi che questi compiti fosse possibile assumere solo per una esigenza di impegno politico e non sulla base di uno studio, della acquisizione, insomma, di tecniche appropriate. (...)
Al fondamento di questo impegno politico velleitario c’è un sostanziale misconoscimento del significato proprio di ricerca artistica, che non può non essere una esperienza di frontiera, operante cioè ai confini tra ciò che è già noto e ciò che non lo è ancora. Ricerca vuol dire, insomma, la messa in atto di una serie di procedimenti in un ambito specificamente linguistico che dall’interno di questo campo «proprio» stabilisce relazioni di consonanza-dissonanza con le altre serie di fatti appartenenti all’ordine sociale. Occorre riconoscere, cioè, su un piano rigorosamente strutturale l’autonomia relativa (insisto sull’aggettivo) del campo specifico del lavoro artistico in relazione dialettica con altre pratiche e discipline. (...)
Ma se l’artista (e l’intellettuale in genere) sono legati al sistema produttivo attuale, il loro lavoro tuttavia, intenzionato politicamente, vuole contribuire a trasformare l’ordinamento esistente. Si pone a questo punto la questione dei modi di questa trasformazione, che sono certamente politici, ma in un senso largo del termine. In altre parole, l’artista, l’intellettuale contribuiranno tanto più efficacemente a questa opera di trasformazione quanto più riusciranno a collocarsi nel punto di intersezione tra la specificità del proprio lavoro e la domanda sociale.
Si tratta di riconoscere, in definitiva, alle pratiche dell’arte un ruolo non subordinato, non immediatamente strumentale, nella riconfigurazione degli ordini sociali esistenti. La questione non è di poco conto e investe anche la responsabilità delle istituzioni pubbliche in quanto essa tende a riconoscere alla dimensione del linguaggio e della ricerca dentro il linguaggio, un ruolo non più soltanto nominale.
(...) Il «territorio» dell’arte, inteso primariamente come ambito specificamente linguistico si espande nel «territorio» del sociale, penetra in esso per vie non sempre prevedibili e non tutte programmabili, recando con sé il proprio contributo di contraddizione, di alternatività, di eversione anche.
Sull’acquisto di questi fondamenti teorici è possibile impostare più correttamente il problema della comunicazione e della socialità della ricerca artistica, della risposta cioè che l’arte può (deve) dare alla domanda sociale di massa. L’artista si pone questo problema, in modi sempre più pressanti in relazione alla crescita della coscienza sociale del proprio lavoro; ma la ricerca resta il fine primario e proprio in quanto lavoro dell’artista si pone come un modo di conoscenza e di trasformazione del reale. Ed è a questo punto che il ruolo delle istituzioni pubbliche acquista interamente il significato di tramite tra ricerca e domanda sociale. Parlo di istituzioni in cui operi una nuova intenzionalità politica; dove l’artista e l’intellettuale in genere trovino uno spazio adeguato, non meramente strumentale, e, in esso, la possibilità di una relazione con il sociale che, per la loro condizione tradizionale di emarginazione (a metà volontaria, a metà forzata) non hanno ancora raggiunto.