Recensioni / L'arte diventa una forma di potere quando è demagogia: come il cinema italiano, insopportabilmente moralista

Per riconciliarvi col teatro e con Laura Morante leggete Bene e Deleuze


Carmelo Bene – Gilles Deleuze Sovrapposizioni Quodlibet 2002

In questo libro dal titolo “Sovrapposizioni”, si racconta e si decifra la costituzione dell’uomo di guerra sulla scena, l’uomo che all’alba ci arriva stordito per cercare un cavallo “tornare a casa e sparire”.
E’ un piccolo volume impegnativo questo, porta una doppia firma, Gilles Deleuze e Carmelo Bene nientemeno, ed è un ghiotto banchetto edito da Quodlibet (costa 15,00 euro) fatto di tre portate più un dessert: vi si troverà una rilettura del “Riccardo III” di William Shakespeare (precisamente l’edizione andata in scena nel 1977), quindi il saggio del filosofo francese “Un manifesto di meno”, dunque la risposta di Bene costruita sul vaneggiare del non-concetto, infine il dolce: 48 tavole di fotografie in bianco e nero, immagini inedite e interessantissime dove il lettore potrà anche piangere il bel tempo andato vedendo come Laura Morante risplendeva in quei giorni di nudità e sopracciglioni tra le braccia di Bene piuttosto che appannarsi tra le mani di nannimoretti vari, come una sincera democratica qualsiasi, come appunto ha fatto fino a ieri, con rammarico dell’Arte tutta. In questo libro dove la fascetta editoriale celebra il comandamento “che le parole cessino di far ‘testo’…”, quell’avvenimento meraviglioso che fu il teatro di Carmelo Bene viene maneggiato attraverso il “Riccardo III”, con Gloucester, macchina da guerra, sottratto ai precetti del testo originario e giocato così, con tutte le donne del dramma, nella fatica dell’impedimento sulle cose. Perfino Buckingham è impersonato da una donna (tanto per non privarsi d’impedimenti). È proprio il personaggio in cui s’è calata Laura Morante non ancora nannimorettata per sua fortuna. Tutta la macchinazione voluta da Shakespeare, nella variazione di Bene è accelerata dalla “nota femminile” che sceglie solo la guerra. “Tutto è funebre arredo”. Astanti in preghiera o in sonno o in veglia da pentametro giambico. Il teschio è servito in un vassoio. Si apparecchia all’occhio tutto un affastellarsi di garze e bare, poi un orologio alla Poe che fa tic tac e fiori ovunque, indifferentemente “freschi e avvizziti” su cui l’attore inciampa. Infine il catafalco di Enrico VI (presso cui Madama Shore “se la dorme, composta e scomposta in un gran letto bianco-trono”).
Tutte le donne di scena che sono l’osceno del femminile nella storia, sono rapite dal de-siderio di annientare il duce di Gloucester, ovvero l’assassino. Questo è il senso della messa in opera. Ma tutte le donne di scena che vanno alla guerra nell’osceno eccesso del desiderio (e questo è il significato della messa in opera), sono tuttavia catturate da Gloucester. Questi in scena si deforma, si mette protesi, mani dalle dita nodose degni di Mr. Hide e altri attrezzi dell’orrore. Cade, ricade, serra i pugni, ghigna, beve, beve tanto da arrivare alla Grazia nella disgrazia dei monchi e quasi le seduce tutte quelle femmine se non fosse che, diventato Re, rinuncia all’abominio, si stacca da sé le protesi, lascia cadere tutti gli orpelli dell’ignominia, si fa partecipe del “parlare bene della maggioranza” e perciò finisce. È “la favola raccontata da un idiota che non vuol dire n i e n t e”. Le ombre della notte lo spaventano più di diecimila armati in carne e ossa. Riccardo il Re che si spoglia, che si fa bello, che si fa Potere, perde la sua costituzione di uomo di guerra fatto in scena. Entra nel buio della dissolvenza finale senza neppure più il conforto musicale del-l’abiezione. Quelle parole estenuate, quella partitura di musica che incombe nell’incastro della battuta (“Il mio regno per un cavallo”) fanno di un duca pazzo che riconduce ostilità e alleanze di palazzo solo per parlare violentemente a sé stesso “nel proprio orecchio, ma in pieno mercato, sulla pubblica piazza”, un incompiuto. È la nottataccia di un uomo da guerra questa Storia, e tutto il regno di un genio per come lo pensò Bene, è propriamente il regno del Divenire. Il nocciolo filosofico del dialogo Deleuze-Bene è tutto qui. L’uomo di guerra che ha un’origine diversa dall’uomo di Potere o di Stato, è la “coscienza minoritaria” delle qualità difformi. La guerra porta dappertutto, senza limitazione alcuna. Astante all’ascolto del Divenire, il guerreggiante è nella condizione di chi ha “conquistato il diritto di balbettare in opposizione al ‘parlare bene’ maggiore”.
Si può ricavare perfino un polemico ritaglio di attualità da questo libro. Vi si raccon-ta, nel saggio di Deleuze, di come Bene avesse in fastidio le istituzioni come organi della rappresentazione del “conflitti riconosciuti”. Il discorso è obbligatoriamente politico. Ci si riferisce qui al teatro brechtiano, ossia quell’illusione ideologica del teatro “per tutti”, tutti quelli che dalla rappresentazione borghese del dramma sono passati alla rappresentazione popolare dell’epico. Un fattore oggettivo di “immobilità” diceva Bene, quell’arte che appunto diventa una forma di Potere quando comincia a diventare “demagogia”. Quasi il Potere nannimorettico di tutto il cinema italiano per intendersi. E infatti, Bene, indica nel cinema italiano “con le sue ambizioni pseudopolitiche”, il luogo insop-portabile del “narcisistico, storicistico, moralizzante” pensare bene. Non possiamo che soffermarci sulle foto di scena alla fine: Lydia Macinelli, duchessa di York, lui trionfante, con una tibia a far da scettro e col teschio a far da sigillo al Regno. E dunque tutte le al-tre, a incoronare la sequenza delle vedove avvinazzate, con Laura Morante appunto, per sua fortuna e per l’amore dell’Arte non narcisistica, non storicistica, non moralistica.