Recensioni / Menna, un critico militante nei fermenti degli anni ‘70

L’arte, la cultura, il lavoro dell’uomo hanno un potenziale critico-utopico che deve essere liberato, immesso direttamente nel circolo vitale dell’individuo e della collettività: fino a far perdere le tracce delle proprie origini nel dominio separato dell’arte e della cultura. In tal modo la cultura si perde nel tempo per cedersi come acquisizione nel patrimonio genetico. In tal caso si tratterebbe di una metacultura basata sulla cultura attuale quasi dimenticata a memoria». È la conclusione della recensione di Filiberto Menna alla mostra di Agnetti allo studio d’arte Lia Rumma, pubblicata su «Il Mattino» del 13 febbraio 1973; titolo «L’arte dimenticata a memoria». Ed è l’immagine che campeggia sul libro Filiberto Menna. Cronache dagli anni Settanta, a cura di Antonello Tolve e Stefania Zuliani; introduzione di Angelo Trimarco, editore Quodlibet col contributo dell’Università di Salerno e della Fondazione Mennna.
Quell’arte «dimenticata a memoria», quel seme che non muore ma si trasforma entrando a far parte della nostra esistenza quotidiana, è ancora oggi – lo ha sottolineato Trimarco nel corso della presentazione del volume ieri all’Archivio di Stato di Salemo – un manifesto: la necessità del ritorno all’utopia del futuro proclamata dall’intellettuale vorace e totale in Profezia di una società estetica. È l’immergersi nel presente che avverte i cambiamenti e costruisce il nuovo – spiega Trimarco – «quell’invito a guardare in avanti che ci lancia Bauman nell’epilogo di Retrotopia in cui fa la diagnosi di questa società malata che naviga il presente all’indietro in cerca di isole che possano dare conforto immediato».
Pagine da meditare: è un messaggio in bottiglia la selezionata raccolta di articoli del Menna critico militante (anche online sul sito della Fondazione), apparsi sulla stampa quotidiana nazionale nell’esercizio del mestiere di «cronista che interpreta il suo tempo – dice Zuliani – quell’intenso e controverso decennio 1970-1980 in cui le esperienze culturali non erano separate ma si intrecciavano perché c’era un progetto». Un “milieu” eroico di grande storia e critica d’arte, di gallerie e di artisti fortemente innovativi, di sperimentazione teatrale, di uso dello spazio e del territorio con l’auspicabile dialogo tra operatori del sapere e politici, che Menna gestisce (sono anche gli anni della cattedra in Storia dell’arte contemporanea, la prima in Italia, all’Università di Salerno) con equilibrio e lungimiranza, senza nascondersi, affrontando l’impopolarità e l’ostracismo.
C’è un episodio chiave, lo svela Trimarco. Dall’osservatorio del «Mattino», con la sua scrittura che va diritto alle questioni e al gusto del lettore, racconta la Napoli che si sta svecchiando, quella di Causa che apre le porte di Capodimonte a Burri, della galleria Il Centro, della Modem Art Agency di Amelio che guarda all’Europa. Lui accompagna il fervore di iniziative in maniera partecipata. La scintilla scoppia con la performance (1974, Studio Morra) di Urs Lüthi: in scena la figura dell’androgino e dell’ermafrodito e il travestimento. Il pezzo del suo vice Trimarco desta clamore all’interno del giornale, Menna si dimette (qualcuno parlerà di rimozione politica). Passa a «Paese Sera», parlerà della Roma calamita di artisti, declinando, come ha sempre fatto, l’insegnamento alla Facoltà di Architettura, la ricerca e del lavoro sul campo.