Recensioni / Se Adamo non fosse il primo uomo?

Nato nel 1594 a Bordeaux da una famiglia ugonotta appartenente alla nobiltà di toga, trasferitosi a Parigi verso il 1630, Isaac La Peyrère nel 1655 pubblicò anonimo e senza indicazione di luogo ed editore — in realtà ad Amsterdam, dove si trovava "al servizio degli eserciti mercenari spagnoli del principe di Condé" (S. Zoli, Il preadamitismo di Isaac La Peyrère nell’età previchiana e il libertinismo europeo del Seicento, in questo "Bollettino" XXI (1991), p. 62) — un libro che conteneva due suoi scritti latini: il primo — quello di cui ci stiamo occupando, finora mai tradotto in italiano — più esile, intitolato Praeadamitae sive Exercitatio super Versibus duodecimo, decimotertio, et decimoquarto, capitis quinti Epistulae D. Pauli ad Romanos, quibus inducuntur Primi Homines ante Adamum conditi [I preadamiti, ovvero Esercitazione sui versetti dodicesimo, tredicesimo e quattordicesimo del capitolo quinto dell’Epistola ai Romani del divino Paolo, versetti nei quali si introducono i primi uomini creati prima di Adamo: testo edito in italiano nel 2004, con testo latino a fronte, a cura di G. Lucchesini e P. Totaro, Macerata, Quodlibet]; il secondo, più ponderoso, intitolato Systema theologicum ex Praeadamitarum hypothesi, un titolo ambizioso certo (Systema), ma che con ragionata e ragionevole prudenza attribuiva all’idea di un mondo preadamitico un carattere ipotetico (hypothesi); così come quello della prima opera, con non minore e non meno comprensibile prudenza, voleva ricordare al lettore che il lavoro era stato scritto a puro "scopo di esercitazione".
Tutte queste premure non erano fuori luogo, se pensiamo che l’Exercitatio, pubblicata dopo aver conosciuto una circolazione manoscritta quasi ventennale, incorse nella condanna dell’autorità religiosa e civile. L’autore conobbe il rigore dell’Inquisizione spagnola: fu, infatti, arrestato ed imprigionato a Bruxelles — a quel tempo sottoposta al governo della Spagna — e considerato un "epigono" di Giordano Bruno (cfr. S. Zoli, Il preadamitismo…, cit., p. 63); ma, privo della tempra e del coraggio del Nolano e temendo un annoso processo dall’esito per lui tragico, ben presto abiurò le tesi preadamitiche e la sua fede calvinista, abbracciando il cattolicesimo.
Non è escluso, inoltre, che alla base dell’espulsione di Spinoza dalla Sinagoga nel 1656 ci possa essere l’"influenza diretta esercitata dai temi trattati da La Peyrère" (P. Totaro, introduzione al volume, p. XXII).
Come recita anche il titolo, lo scritto sui preadamiti vuole presentarsi in realtà come un’"esercitazione" esegetica sui versetti 12-14 del capitolo V dell’Epistola ai Romani di Paolo di Tarso, nei quali si accenna all’ingresso della legge, del peccato e della morte (quale pena per la trasgressione adamica) nel mondo e si ragiona sulle figure di Adamo e di Mosè.
La tesi poligenista — contrapposta a quella tradizionale monogenista — viene presentata da La Peyrère. come l’interpretazione del passo paolino e del racconto biblico della creazione più adeguata a dare ragione di quei popoli e di quei documenti antichi "(caldaici, egizi, scitici e cinesi)" o di quelli comparsi sullo scenario della storia europea in età moderna (la "stirpe messicana" e le "genti australi e settentrionali") solo a prezzo di gravi forzature riconducibili ad una presunta primogenitura adamitica. L’idea di una creazione originaria diversificata nello spazio geografico e, diremmo noi, multiculturale, avrebbe consentito — secondo La Peyrère — di conciliare "la Genesi ed il Vangelo con l’astronomia degli antichi" e con le culture “altre”, ad esempio, quelle americane, rendendo così più agevole la conversione al cristianesimo.
Si trattava, dunque, di evitare che le “diversità” impostesi in età moderna con le scoperte geografiche si costituissero come storie “altre” ed eccentriche rispetto a quella biblica e, parallelamente, di conservare a quest’ultima lo status di fonte originaria dell’unica, possibile storia universale. La tesi eretica dell’autore svolgeva perciò in termini inversi la stessa funzione della vichiana "boria dei dotti" e "delle nazioni": quella riconoscendo e salvaguardando le remote origini rivendicate dai popoli antichi e moderni, questa negandole recisamente. Entrambi — La Peyrère e Vico — con un intento comune: interdire la pluralità delle storie riducendola all’unità di una sola storia; un intento che, per quanto gravato da una tenacia — comprensibile per quel tempo — ad occultare le differenze piuttosto che ad esaltarle, potremmo definire addirittura interculturale ante litteram.
Nella lettura di La Peyrère, Adamo, non più unico progenitore del genere umano, diventa il “primo” uomo a cui la divinità, con il divieto di cogliere il frutto proibito, consegna quella legge che fonda anche la possibilità del peccato — dal momento che la trasgressione può darsi solo in presenza di una norma — e fa della morte, evento prima di allora solo naturale, la giusta punizione per la disobbedienza adamica.
Ma, se Adamo è quell’uomo per mezzo del quale la legge divina, il peccato e la morte come pena si consegnano all’intero genere umano (anche a quello preadamitico) ed è — nel quadro di un’ermeneutica squisitamente figurale — l’antesignano per antitesi di Gesù Cristo, quest’ultimo, figura di compimento, si collega per contrapposizione al suo predecessore, in quanto salva il genere umano tutto (compreso quello preadamitico, che, per trovare salvezza in Cristo, doveva perdersi anch’esso con Adamo), redimendolo dal peccato originale.