Recensioni / Formidabile quell’arte: le “utopie radicali” degli anni ’60 e ’70

I tempi erano quelli. Un decennio di invenzioni, sperimentazioni, esplosioni, a cavallo fra i Sessanta e i Settanta del Novecento, col fatidico ’68 a fare da bussola e spartiacque. A Firenze, alle impollinazioni della “Poesia visiva” dei Miccini e Pignotti, si affiancava l’esuberanza creativa, fra architettura, arte e design, di gruppi che già nel nome denunciavano l`arditezza di scelte estrose, fuori misura e fuori sincrono, Archizoom, 99999, Superstudio, Poltronova, Ufo, Zziggurat, spalleggiati da firme come quelle di Ettore Sottsass, Maurizio Nannini, Lapo Binazzi, Alessandro Poli, Alberto Breschi, Remo Buti e Gianni Pettena.
Curatore quest’ultimo, insieme a Pino Brugellis e Alberto Salvadori, della mostra che ne ricostruisce e celebra le imprese che oggi si apre nei sotterranei di Palazzo Strozzi. Il titolo, “Utopie radicali”, è azzeccato. A significare l’imprevedibilità dell’impianto tecnico e l’estremismo dell’approccio estetico. Una giostra di novità, effimere quanto improbabili, che rompeva gli schemi, scomponeva gli spazi, destrutturava i codici, iniettava alterità e alienazione, dialettica critica e spensieratezza creativa, una panoramica che andava oltre l’orizzonte consueto, dentro una mappa della società che il boom economico stava ridelineando, fra pubblicità, grafica, radio televisione cinema, consumismo, sessualità, emancipazione, ribellismo, benessere.
Le mosse erano insieme ludiche e politiche. Si contestava il sistema, l’eredità del razionalismo veniva cancellata, si avviava una “demolizione della disciplina” attraverso azioni di guerriglia, interferenze, happening, performance urbane, cortocircuiti operativi, trasgressioni. «Nei radicali – scrivono i curatori nel catalogo edito da Quodlibet – che pur si muovevano su terreni diversi e a volte contraddittori, è presenta un’ironia dissacrante verso una società che tutto ciò ignorava: è la messa in scena della contrapposizione tra establishment e nuove generazioni che reclamano spazio».
La mostra, 320 pezzi, progetti, video, foto e fotomontaggi, riviste, mobili, tessuti, abiti, gioielli, rende conto di questo estroso divenire, che consensi raccolse anche all’estero tanto da finire nei maggiori musei d’arte contemporanea del mondo. Una Firenze com’era che, per chi non l’ha vissuta, sembra finta.