Recensioni / I ragazzi della Trieste asburgica

Agli inizi del secolo scorso Scipio Slataper denunciava la “desertificazione” culturale di Trieste: altro che terra di intelletti e di scoperte, ripeteva l’autore de Il mio Carso nei suoi pamphlet e su «La voce» di Prezzolini, collegamento letterario tra l’Italia soffocata dal crocianesimo e la propaggine dell’impero asburgico che sognava (in parte) di diventare italiana.
Tra gli irredentisti patrioti c’era anche Giani Stuparich, volontario nella Prima guerra mondiale e medaglia d’oro al valor militare nel 1918, poi membro del CLN, nonché scrittore e giornalista de «La stampa» e «Il Tempo». Fu anche, dal 1921 al 1941, insegnante di italiano nel più antico liceo classico cittadino, il Dante Alighieri, ma di questa sua lunga esperienza ha beneficiato solo in parte Un anno di scuola, pubblicato per la prima volta nel 1929 in Racconti per i Fratelli Buratti di Torino e diventato anche un film per la regia di Franco Giraldi nel 1977. Oggi quel lungo racconto è riproposto in un’elegante edizione da Quodlibet per la curatela di Giuseppe Sandrini, che in una postfazione analizza i personaggi e il contesto.
Siamo nel 1909 e una delle protagoniste di questo piccolo romanzo corale, Edda Marty, tenta l’accesso all’ottavo anno del ginnasio, che apre le porte all’università. Edda, trasferitasi con i genitori dalla cosmopolita Vienna, come Slataper avverte il soffocante provincialismo della città portuale e mal si adatta a frequentarne il liceo femminile. Riesce ad entrare in una classe di soli maschi, turbando con la sua libertà e vivacità intellettuale i coetanei dai caratteri ancora in via di definizione, impacciati dall’improvvisa convivenza con l’altro sesso. Tra i ragazzi, che fino ad allora erano stati per lo più amici, si innesta una specie di competizione per conquistare Edda. Ognuno dei personaggi di primo piano, come spiega anche lo scritto finale di Sandrini, cela l’identità di quel manipolo di giovani che contribuirono a svecchiare l’Italia trasferendosi a studiare da Praga a Firenze e introducendo autori della letteratura tedesca e scandinava allora sconosciuti in Italia. Antero, sensibile e orgoglioso, sarebbe lo stesso Stuparich; Pasini risponderebbe alla figura di Alberto Spaini, tra i primi traduttori di Kafka; e Mitis, Ruggero Timeus, all’autore del manifesto irredentista Trieste sotto lo pseudonimo di Fauro.
Le schermaglie amorose e amicali, che oggi avrebbero identiche declinazioni nei sussulti e nel furore delle prime esperienze emotive, sono rivelatrici però del male che affliggeva al tempo Trieste, sulle cui spalle stavano per abbattersi il crollo dell’impero austroungarico e la Prima guerra mondiale. Un’atmosfera da incubo in cui si era incistata un’epidemia di suicidi giovanili – solo nel 1910, “colpì” il filosofo e poeta goriziano che orbitava su Trieste, Carlo Michelstaedter, il pittore Arturo Fittke e Anna Pulitzer, detta Gioietta, una delle Amiche di Slataper –, da cui è influenzato anche Pasini, che si spara un colpo al cuore, usando il gesto in maniera ricattatoria verso Edda. Emergono da Un anno di scuola il sottile odio diffuso tra le nazionalità che convivevano separate a Trieste – il dissidio tra il padre tedesco e la madre slovena di Edda la mancanza di cosmopolitismo, dunque, e di modernità di vedute; piuttosto un conformismo cieco – è molto criticato il cappotto bianco che Edda sfoggia al funerale della sorella – e una sottile misoginia. Dal racconto di Stuparich si evince l’ammirazione per la sua eroina –, che poi diventò una brillante pediatra, Maria Prebil –, e una sorta di amarezza e rimpianto per la vigliaccheria, anche la sua stessa, che la circonda: «Io volli essere… vostro compagno e voi m’avete sempre… ricacciato nel mio sesso».
Non si intuisce forse abbastanza quanto eccezionale sia stata quell’epoca triestina che vedeva seduti assieme nei caffè Saba e Svevo, Quarantotti Gambini e Giotti. Ma anche lo stesso Stuparich, autore di Guerra del ’15 (Treves, 1931 e poi Quodlibet, 2017), Trieste nei miei ricordi (Garzanti, 1948) e L’isola (Einaudi, 1942), che per il critico Enrico Falqui fu una delle migliori pagine del Novecento.