Recensioni / I profughi

Quando nel 1953 I profughi uscì per la Frankfurter Anstalt, in un’edizione che raccoglieva anche il precedente romanzo Alessandro o della verità, Arno Schmidt appose al volumetto il seguente sottotitolo: 2 studi di prosa (forme brevi per la resa di uno spostamento spaziale plurimo degli agenti in un’unità di tempo fissa).
Il sottotitolo getta luce sul fatto che I profughi è un libro ben più complesso della sua trama, la quale, al contrario del sottotitolo stesso, è relativamente lineare: uno scrittore che vive di traduzioni e una giovane vedova di guerra con una gamba amputata si conoscono, parlano, si innamorano, vivono insieme (il finale gioca quasi con le formule conclusive delle favole: «Così viviamo per il momento insieme; come andrà poi, non lo so ancora»). Lo sfondo è l’Europa del dopoguerra, e più precisamente la vicenda delle espulsioni di oltre dieci milioni di tedeschi che abitavano a est dell’Oder e che dopo la fine del conflitto – essendo tali territori divenuti parte di Polonia e Cecoslovacchia – dovettero essere reinsediati, vale a dire spostati a forza, in regioni della Germania a quel tempo segnate dalla guerra, dalla mancanza di cibo e di denaro, dal caos politico e amministrativo. I due protagonisti sono appunto due profughi (proprio come Schmidt stesso, che assieme alla moglie Alice fu reinsediato addirittura due volte), e il libro ne racconta gli spostamenti fra treni, stazioni, stanze microscopiche, piccole osterie di provincia.
Eppure, come Schmidt tiene a puntualizzare fin dalla prima edizione, il libro è assai più di tutto questo. Invitato da Martin Walser nel 1952 a presentare I profughi alla radio, Schmidt rileva – come riporta Dario Borso nel ricco commento alla splendida edizione Quodlibet – che questo scritto risponde all’urgenza di creare “nuove forme”, a suo parere l’unico vero compito dello scrittore. In particolare, con I profughi Schmidt vuole creare una nuova forma che gli permetta di non rispettare l’unità di luogo (resa impossibile dal fatto che il libro tratta una serie di spostamenti nello spazio), mantenendosi però perfettamente aderente al principio dell’unità di tempo.
La nuova forma è quella dell’«album fotografico», come si legge in esergo alla già menzionata prima edizione («24 foto con testo di collegamento»). Tali “foto”, però, consistono di parole: I profughi è suddiviso in 24 sezioni, ciascuna delle quali è introdotta da un piccolo testo inserito in un quadrilatero dalle proporzioni simili a quelle di una fotografia. A ciascuna fotografia di parole, Schmidt fa seguire un testo che integra, espande, spiega e svolge lo “scatto” che le aveva introdotte; uno scatto che intende essere perfettamente a fuoco, ovverosia caratterizzato da una temporalità unitaria. È così che I profughi diventa, appunto, una collazione di forme brevi per la resa di uno spostamento spaziale plurimo degli agenti in un’unità di tempo fissa.
Alla nuova forma “album fotografico” corrisponde una nuova prosa, che usa la lingua come se fosse materiale grezzo (a Borso va reso merito anche dell’ardua traduzione). La particolarissima lingua di Schmidt tenta di raggruppare tempi diversi in un unico tempo, come nella “foto” III: «il sole carezzò la sua gonna a quadri (lì dietro: greve brina sui mirtilli, e sabbia gelata, che si potrebbe certo ancora facilmente sminuzzare). Tra valigie: “Andiamo alla borsa?”. Si alzò un ceffo in polvere di media statura, rullò tutta quanta la via, passò sopra le nostre schiene strette. Treni apparvero seri, si fermarono, caricarono e scaricarono gente frettolosa, fumarono, serpeggiarono via lentovelocemente».
Al centro dei Profughi c’è dunque, oltre alla migrazione nello spazio, la questione del tempo. Schmidt definisce il suo libro un «nuovissimo romanzo svelto (non breve!)». La brevità è una determinazione (anche) spaziale, al contrario della sveltezza; “svelto” è un romanzo che, per raccontare uno spostamento spaziale, diventa, paradossalmente, un romanzo sul tempo, sulla possibilità di trovare nel tempo l’unitarietà che nello spazio, ai profughi, è negata.