Negli ultimi mesi accanto a tanti libri di versi in cui al posto della poesia c’è soltanto il mito (o la velleità) della poesia, vorrei citarne due di straordinaria energia, sapienza metrica ed immaginazione mentale: Vicino e visibile di Daniela Attanasio (Aragno) e Altre amorose di Gino Trucillo (Quodlibet). Nel primo scopriamo come ogni poesia, anche la più disperante, contiene sempre un minuscolo, prezioso “eppure”. Nel suo Sarinagara. Tre volte un’unica storia (2008), diario di viaggio in Giappone per elaborare un lutto intollerabile, Philippe Forest cita un haiku del poeta settecentesco Kobayashi Issa – “sapevo il mondo / in una rugiada effimera / eppure” – per dire che l’unica risposta al male è la poesia, dato che in essa “la morte non è mai l’ultima parola”. Così nei versi di Attanasio ogni giorno il mondo finisce ma pure rinasce, e anche se “il cielo è buio” e i nostri cari sono morti “penseremo al mistero della vita come a una cosa buona”. In Trucillo un canzoniere d’amore diventa intensa meditazione sulla vita e sulla morte, ma parlandoci anche dell’“aria di giugno”, di nuvole e di farina, di noci e melograni, di prati e formiche… In loro la poesia si ripropone come pensiero concentrato, emotivo, cantabile – senza perdere del tutto il legame con un “dire comune” (Bonnefoy) e la parola, benché sottomessa al suono, non perde peso. Come avviene nella poesia di Hans Magnus Enzensberger, Zsymborska e Patrizia Cavalli. In fondo il Nobel a Dylan, per quanto discutibile e forse abusivo, ci ricorda tutto quello di cui spesso la poesia contemporanea non riesce più a parlare: gli atti anche più prosaici del quotidiano, le emozioni elementari e perfino più banali, la spuma effimera dell’esistenza, la luce di giugno e l’amore per l’amata.