Recensioni / Immagini e frammenti di dialoghi

Per chi ha frequentato a lungo Franco Fortini non deve essere facile scegliere – tra le immagini, le situazioni condivise, le conversazioni, i passaggi a tratti quieti a tratti ombrosi di un’amicizia – che cosa riportare in un racconto e che cosa lasciare nella custodia del ricordo silenzioso. Eccomi ora a tentare questa scelta. Lasciando al sopravvenire delle immagini la loro casualità, insomma trattenendo quel che mi viene incontro da lontano al di qua di un commento, o di una dettagliata cornice storica, o di un’interpretazione. Non so se queste immagini possono contribuire a definire un ritratto di Fortini, che pure nel ricordo mi appare composto da elementi contrapposti e tra loro ben coesi: passione politica e distanza dalle figure e dai ruoli che pretendono di incarnare il politico, amore sconfinato per i grandi classici – per alcuni in particolare, come Tasso, Manzoni, Goethe – e riserva assoluta nei confronti di alcuni passaggi rilevanti della contemporaneità, da Nietzsche a Heidegger a Céline, attenzione rigorosissima ai processi formali del dire poetico o narrativo e sospetto nei confronti degli sperimentalismi, piacere dell’affabulazione conviviale e una certa difesa dalla confidenza amicale, severità di giudizio critico e gusto della divagazione erudita ma anche della narrazione autobiografica. Ma su tutto questo – e il fatto ai miei occhi appariva molto raro e dunque prezioso – risaltava, nei suoi pareri e nella sua stessa scrittura, l’equilibrio tra acribia formale e densità di senso, insomma tra cura del dire e preoccupazione della novità discorsiva, un equilibrio vissuto sia nel fare poetico sia nel pensare critico e teorico sia ancora nell’esercizio della traduzione, riservato a grandi classici della narrazione e della poesia.
Ero in servizio militare a Firenze, nel 1967 (ero partito nell’ottobre del ’66, poco prima dell’alluvione), quando un pomeriggio di fine aprile andai ad ascoltare Fortini in piazza Strozzi, nella manifestazione contro la guerra nel Vietnam: stavo ai margini della folla per potermi defilare facilmente nel caso il passaggio della ronda mi avesse individuato (di lì a qualche mese, ancora in caserma, sul tavolo della fureria, avrei scritto una recensione de I cani del Sinai). Avevo fatto di tutto per avere il permesso di libera uscita quel pomeriggio di aprile sia perché avevo già letto con grande entusiasmo Verifica dei poteri sia perché a Milano avevo partecipato ad alcune manifestazioni e ad alcuni sit-in contro la guerra del Vietnam. Avrei poi conosciuto e incontrato Fortini a Milano poco dopo, nel ’68 e negli anni successivi, e in diverse occasioni: con il Movimento degli Insegnanti Medi (insegnavo dal ’68-69 al Liceo Panini), con “il manifesto”, che aveva la sede in corso San Gottardo al 3, e in particolare durante la campagna elettorale sempre con “il manifesto” nel maggio 1972 (anch’io mi ritrovai candidato, insieme con Fortini, in quella sfortunata avventura elettorale). Tra gli amici che a Milano di più frequentavo in quegli anni c’erano alcuni collaboratori di “Quaderni piacentini”, e per questo riferimento a Fortini era un fatto abituale. Se, a partire dalla metà degli anni Sessanta, mi attraevano, nelle posizioni di Fortini, la critica radicale dello stalinismo e l’attenzione agli aspetti non ideologici del marxismo, oltre all`interesse per gli scritti di Simone Weil, a partire dal ’72 i miei interessi per la “nouvelle critique” francese e per i filosofi francofortesi, e la partecipazione alla redazione di “Per la critica”, e subito dopo al “Piccolo Hans” e a “Aut-aut”, mi portarono su altri terreni di scrittura e di confronto teorico. Ma il rapporto con l’autore di Foglio di via continuò soprattutto per via del mio passaggio all’Università di Siena dove divenni suo giovane collega (a favore della scelta senese – in sostituzione di quella veneziana, già profilatasi concretamente – contribuì proprio una conversazione con Fortini che a Siena già insegnava). Dicevo all’inizio delle immagini che sopravvengono. Eccone alcune. La partecipazione di Fortini al comitato di difesa di Piergiorgio Bellocchio, denunciato per aver preso la direzione del giornale “Lotta continua”. Fortini che nell’autobus che da Firenze ci porta a Siena, il giorno dell’elezione di papa Wojtyla, prevede, con disappunto, la grande azione politicamente conservatrice ma anche di forte presenza comunicativa del nuovo eletto. Fortini che in treno mi racconta delle sue prove di scrittura al computer e del suo stizzito stupore dinanzi alla sparizione di un paio di pagine, non rassegnandosi che si siano volatilizzate, lui che è un geloso curatore delle proprie carte. Fortini che, mentre con un gruppo di amici, dopo cena, in una casa in campagna, leggiamo nostri versi, seduto accanto al camino accompagna silenzioso l’ascolto, cercando di seguire con lievi gesti della mano i ritmi, spesso sorpreso della loro irregolarità, dando credito a sottese e spesso inesistenti strutture metriche. Fortini che racconta con minuzie di particolari le sere in Val d’Ossola e gli anni del passaggio dalla Firenze della guerra a Milano. Fortini che, con divertita autoironia, mi recita, un tardo pomeriggio, passeggiando in una via senese, l’epigrafe che vede campeggiare, in un futuro imprecisato, sulla casa dove nacque a Firenze. Fortini che nel corso di un seminario baudelairiano dimette per un istante la sua severità e dichiara di apprezzare la mia traduzione dell’Albatros, invitandomi a proseguire nella traduzione di tutte le Fleurs du mal. Fortini che mi manda (ero stato convinto a dirigere per due anni l’appena nato Dipartimento) estive cartoline in cui mi suggerisce di ordinare per la Biblioteca alcune edizioni critiche irrinunciabili e mi dice i dettagli del corso che intende svolgere. Ma queste e molte altre immagini in qualche modo si nascondono dietro le quinte, nel teatro della memoria, perché sulla scena quel che con voce sicura permane sono le pagine del poeta e del saggista. Tuttavia tra queste pagine ci sono alcune che non si staccano dalla situazione visiva, dall’occasione in cui per la prima volta mi è accaduto di leggerle. Si tratta dei versi di Paesaggio con serpente, letti con annotazioni a matita lasciate nei margini: dovevo presentare il libro a Siena, nella Sala delle Lupe del Palazzo Comunale (l’altro presentatore era Romano Luperini). Quando dopo un paio d’anni ordinai quelle annotazioni lasciai nel titolo il riferimento all’origine: Paesaggio con serpente: appunti a matita (“Lengua”, 7, 1987). Sui versi di quella raccolta vorrei concludere (a quei versi e a tutta la poesia di Fortini è dedicata ora una bella e accuratissima monografia critica: Francesco Diaco, Dialettica e speranza, Quodlibet studio, 2017). C’è, in quei versi – e ci sarà in maniera ancora più tersa in Composita solvantur – un movimento verso l’allegoria trattenuto al di qua del suo estetico comporsi nella forma, e allo stesso tempo uno sguardo, direi benjaminiano, sul disegno della Storia. Del quale disegno si possono contemplare solo frantumi di bandiere sfilacciate, speranze prive di compimento, lampi di non vissuta felicità. Il paesaggio – gnostica è la lettura della scena pittorica di Poussin che dà il titolo – ha trasparenze da fondale di teatro, dietro il quale c’è però un altro indecifrato paesaggio. Una natura muta, alla quale i poeti hanno cercato di dare una lingua, ma che resta ancora raccolta nel suo silenzio, nella sua impenetrabile apparenza. Nel paesaggio l’insidia non è il serpente, ma il paesaggio stesso. Sotto lo sguardo del poeta, il visibile si dilata da una parte, verticalmente, verso un’interiorità turbata che però rinuncia al racconto di sé, e dall’altra, orizzontalmente, verso una storia – storia dell`Occidente – che porta una ferita nell’ordine del discorso.
Così il verso cerca un varco tra l’inganno del senso storico e la fascinazione del significante, delle sue sonorità musicali: un varco che si fa dizione (nel senso della “diction” mallarmeana, del suo essere “intellectuelle”, dunque carica dell’insidia che comporta il pensiero). Per questo l’elegia è frenata, il canto s’intesse col giudizio e talvolta con la sentenza e l’aforisma, le cose rappresentate espongono i loro nomi come da dietro un vetro.
Nel verso di Fortini la poesia sa l’impotenza della poesia, ma questo sapere è affidato a una forma insieme limpida e incrinata. Una perfezione cercata e allo stesso tempo negata. Ritrovo una frase, invero un poco formulistica e forse compiaciuta, di quei miei lontani appunti: “Come c’è una teologia senza Dio, c’è una poesia senza estetica, una lingua senza abbandono, uno sguardo senza specchio, uno specchio senza immagine”. Affermazione che non impediva di scorgere nel verso di Fortini la profana e combattiva ma anche disincantata ricerca di quella “sostanza di cose sperate” che per Dante definisce la fede.