Quando Beppe scoprì che lo zio Bruno aveva insegnato a Renata, la prima delle sue quattro figlie, ad andare in bicicletta, decise di regalargliene una nuova. Buona idea. Beppe e Renata andarono insieme in un negozio in corso Sempione, a Milano. La scelta del negozio non era per caso o convenienza o conoscenza, ma per comodità: la comodità di Beppe, non di Renata. Perché corso Sempione è dove c’era (e c’è) la Rai, il posto di lavoro di Beppe, più o meno dall’altra parte della città rispetto a via Sismondi, dove c’era la casa di Renata e, in misura decisamente minore quanto a tempo trascorso, anche di Beppe.
Beppe comprò una bici bellissima, un po’ grande, diciamo per la crescita, visto che Renata – dieci anni, forse neanche - non toccava terra neppure allungando le punte dei piedi. Usciti dal negozio, Beppe le disse: “Adesso torni a casa da sola: segui i cartelli che indicano Linate, e se ti perdi chiedi. Ciao!”. Dopo una mezz’oretta, chissà se preoccupato o pentito o soltanto incuriosito (forse ci aveva scommesso su), Beppe telefonò a casa per sapere se Renata fosse arrivata. Fu così che Franca, moglie di Beppe, venne messa al corrente che molto probabilmente era rimasta con una figlia – Renata, appunto: le altre tre, per la completezza dell’informazione, in ordine cronologico Marina, Anna e Serena - in meno. “Ma sei pazzo?”, riuscì a dirgli. “Cosa vuoi che succeda?”, minimizzò Beppe. E come per rassicurarla, ma procurando l’effetto opposto, aggiunse: “E poi è lunga da qui a casa”.
Beppe era Beppe Viola. Lo è ancora. Lo sarà sempre. Quella faccia che sembrava disegnata da Altan (e Altan la disegnò per la copertina del libro “Vite vere compresa la mia”). Quel senso comico e ironico, innato e istintivo, sorprendente ed esplosivo, fulmineo e fulminante. Quella speciale leggerezza e quella certa eleganza. Quel genio che si poteva applicare alla radio o alla tv, al cabaret o al cinema, ai quotidiani o ai libri, ma anche in sala stampa o in sala scommesse, in agenzie giornalistiche o in agenzie ippiche, sopra i palcoscenici o dietro le quinte, con un bicchiere in mano o un boero nel gozzo, con la pressione alle stelle o il colesterolo da Guinness dei primati. Quelle battute che erano letteratura.
Beppe Viola morì 35 anni fa: il 17 ottobre 1982, prima di una Domenica sportiva. Stava per compiere 43 anni, aveva già compiuto una moglie, quattro figlie, la Rai e mille altre collaborazioni – articoli, libri, canzoni, rubriche - affettuosamente ribattezzate marchette. Adesso, per sentirne meno la mancanza, è uscito Sportivo sarà lei (Quodlibet, 248 pagine, 17 euro, con la prefazione di Marina Viola, la postfazione di Giorgio Terruzzi e un mio scritto), nuovo titolo di Inediti e dimenticati, una raccolta di appunti e note, pezzi e ritratti, storie e dialoghi, idee e voli, che Giorgio e io, che lavoravamo nel marchettificio congegnato da Beppe Viola, avevamo trovato frugando nei cassetti, nell’archivio, nella posta. Quei fogli battuti a macchina si rivelarono un patrimonio, un’eredità. Il suo testamento.
Non saprei dire quanto Beppe Viola amasse la bicicletta. Visto quello che successe con Renata, che poi – vorrei tranquillizzarvi – tornò regolarmente a casa seguendo i cartelli Linate e chiedendo a qualche persona perbene, direi di no. Non saprei dire neppure quanto Beppe Viola amasse il ciclismo. Più che alla Sanremo sembrava interessato a San Siro (sponda Milan, modestamente), inteso come asini a due gambe o a quattro zampe, ma un Giro d’Italia scritto da lui sarebbe diventato un capolavoro. Come capita a quelli bravi, aveva le mani legate, abitava in un ufficio dimenticato dall’azienda, di solito intratteneva sfaccendati e perdigiorno, trascurando perfino casa e affetti. Ma intanto immagazzinava facce, organizzava scherzi, collezionava storie che oggi, anche domani, anche dopodomani, anche fra altri 35 anni, per chi ci sarà, ci regaleranno il senso della vita. Vite vere. Compresa la sua.