Recensioni / Adolf Hitler. Il nazismo come «incatenamento alla terra», rifiuto di ogni «evasione», nelle alte pagine-di Emmanuel Levinas

Non è vero che dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti sappiamo già tutto. Non è vero che le testimonianze già pubblicate, anche le più alte - penso a Primo Levi o ad Anna Frank- siano esaurienti. Non è vero che la nostra cultura abbia capito: forse ha digerito senza capire. E rischia di dimenticare.
Ci possono aiutare alcune testimonianze dal lager, fino a ieri inedite in Italia, e alcune riflessioni culturali di alto livello.
Tra le testimonianze non devono passare inascoltate quelle, ben diverse fra di loro, ma unite dalla comune sofferenza. di un giovane ebreo di Lodz, Dawid Sierakowiak, e di un pastore evangelico, Paul Schneider, ucciso a Buchenwald. I confronti sono utili, ma non esaurienti. È facile paragonare Il diario di David Sierakowiak (Einaudi, pp 318, L. 28.000), cinque quaderni lasciati nel ghetto di Lodz (e fortunosamente ritrovati: il racconto del ritrovamento è romanzesco), con il famoso diario di Anna Frank. Ma lei presentiva, attendeva, prevedeva: lui, invece, si trovava immerso nelle repressioni, nella ricerca di qualche aiuto, nella fame (morì di stenti ad appena 19 anni nel più grande ghetto ebraico della Polonia, poco prima che i nazisti lo chiudessero trasportando tutti nei campi di sterminio).
Il diario di un giovane colto che, nonostante tutto e soprattutto la fame, vuole studiare, si professa comunista, cerca di tradurre Lenin in yiddish. Espone con lucidità e disincanto la sua perplessità sulla maniera con cui le autorità ebree organizzano il ghetto e la resistenza (vi ricordate la zona grigia di Primo Levi?). Rende esplicito tutto ciò che in Anna Frank è implicito: qui nessuna distanza fra la vita quotidiana e la tragedia.
Per il pastore Schneider - Margarete Dieterich Schneider, Paul Schneider, II predicatore di Buchenwaid (Laudiana, pp. 256, £. 32.000) - il confronto quasi obbligato è con Bonhoeffer. La stesso lucida riflessione, la stessa consapevolezza che la loro «chiesa confessante» che si opponeva al nazismo, non era che una minoranza fra i protestanti e i cattolici, affascinati da quel1'entusiasmo un pò populista, un pò nazionalista. È interessante notare che 1'opposizione di Schneider ha inizio addirittura nel 1933, prima che Hitler ottenga il potere. Schneider aveva
difficoltà incontrate anche da parte delle autorità ecclesiastiche da cui dipendeva: anche qui il grigio (in calce al volume, la cronologia degli eventi ricorda che il 20 luglio 19331 a prima potenza straniera ad accreditare il regime Hitleriano e il Vaticano!).
Schneider fu fra le prime vittime, nel luglio del 1939, dopo svariati arresti e, infine, mesi e mesi di torture. Gli si chiedeva di accettare le indicazioni della chiesa vicina ai nazisti e di piegarsi al saluto della croce uncinata. Preferì, invece, un'altra croce, quella di Gesù Cristo. Un dettaglio significativo. La notizia dell'uccisione di Schneider arriva a Londra a Bonhoeffer che sta suonando il piano. Bonhoeffer risponde al telefono; poi dice: «È stato ucciso il primo dei nostri martiri» e decide di rientrare in Germania.
Come mai è potuto accadere? Una fra le prime risposte- e più profonde- la diede Emmanuel Lévinas, già nel 1934, all’indomani dell’arrivo di Hitler al potere (su Esprit, rivista del cattolicesimo progressista). Poi il grande pensatore ebreo di origine lituana la volle ripubblicare nel 1990, facendola precedere da una rapida e significativa prefazione (la recente traduzione italiana dei due testi di Lévinas - Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo, Quodlibet, pp. 94, £. 18.000 - è accompagnata da due ottimi saggi di Giorgio Agamben e di Miguel Abensour). Lévinas considera 1'hitlerismo nel quadro della filosofia europea, di cui interrompe il corso, stravolgendone i caposaldi. A1 centro, per l’hitlerismo, il corpo a cui siamo come incatenati, e quindi la razza, la potenza, ma anche la violenza e la intolleranza. Impossibile la via d'uscita. Dall'altra parte, invece, quella libertà che aveva permesso al pensiero sia liberale che ebraico -cristiano di sollevarsi al di sopra dell'incatenamento all’oggi, della repressione. Era una cultura dell'uscita («esodo» nel linguaggio biblico) che aveva permesso all'io di elevarsi verso altri cieli. Una cultura dell'«evasione» invece dell'incatenamento e della oppressione. La condizione umana non si raggiunge se non nella responsabilità per l’altro uomo. Una «elezione proveniente da un dio - o da Dio - che lo guarda nel volto dell’altro uomo, suo prossimo, luogo originale della Rivelazione». Il volto dell'altro, dunque: proprio quel volto altrui - estraneo, straniero, diverso - che l’hitlerismo ha voluto annientare. Gli faceva paura. Gli ricordava le proprie responsabilità e soprattutto i propri invalicabili limiti. La riflessione di Lévinas, così, mentre giova a capire il passato, serve a illustrare il presente e i suoi rischi. Rischi di paganesimo chiuso in se stesso, al quale non era del tutto estraneo neppure Heidegger, il grande maestro di Lévinas, con il suo essere-nel-mondo. Lévinas gli contrappone, con delicatezza, il giudaismo «perché senza luogo definitivo nel mondo».
Già nel 1934 il saggio pubblicato da Lévinas si apriva con queste parole profetiche: «La filosofia di Hitler è rudimentale. Ma le potenze primordiali che vi si consumano fanno esplodere la fraseologia miserabile sotto la spinta di una forza elementare. Destano la nostalgia segreta del1'animo tedesco. Ben più che un contagio o una follia l’hitlerismo è un risveglio di sentimenti elementari». Sono ancora oggi dietro l’angolo, se non ci apriamo all’«altro».