Recensioni / Gabriella Drudi. Per un’intimità della critica

Protagonista della stagione d’oro romana e compagna di Toti Scialoja, con le sue parole ha fatto conoscere in Italia l’espressionismo astratto americano. E ora, finalmente, un importante volume ne ripercorre il lavoro

Figura tra le più originali e poliedriche della critica d’arte al femminile, Gabriella Drudi (Venezia, 1922 - Roma, 1998) è volto brillante di una stagione che ha lavorato a stretto contatto con la poesia e la pittura, il segno e la parola. Dopo gli studi in giurisprudenza a Siena, e accanto al lavoro di agente letterario e di traduttrice, un percorso teatrale (si pensi almeno all’adattamento – mai rappresentato – del festino di Aleksandr Puškin, sul quale si cimenta accanto a Mario Verdone, Piero Sadun e Mario Grazzin), una naturale inclinazione letteraria, l’amore per la pittura e la vivace operosità nel campo della critica d’arte, la rendono una delle personalità più interessanti di quella intellighenzia che riempie le serate romane di metà Novecento, fatte di una “ironia sottile” che “si fonde in una cultura” tesa a rivalutare “l’importanza della leggerezza”. Legata a una parola la cui forza cuce e ricuce costantemente i racconti dell’arte («la parola è sostanza, labile, ma sostanza che agisce, corrompe, guarisce», spiegava), Drudi disegna un itinerario riflessivo che si nutre di esperienze sul campo, di scritture critiche dense e multiformi, di processi creativi e di pensieri teorici che abbozzano il nuovo scenario intellettuale di una Roma “città aperta” all’arte americana, che vive e brulica di incontri inaspettati, che porta sotto uno stesso cielo culture diverse.
“Quando comincia a scrivere d’arte, nel 1956 sulla rivista Arti Visive, continuando parallelamente le altre attività, la Drudi è impegnata a intessere rapporti con la cultura angloamericana attraverso la letteratura”, avvisa Maria De Vivo nel brillante saggio del 2012 “Gabriella Drudi. La scrittura dell’arte” che ha aperto la strada a un importante volume, Andare verso. La critica d’arte secondo Gabriella Drudi (Quodlibet, 2017), in uscita a ottobre. Nella società gestita con sua sorella si occupa tra gli altri di Graham Greene, John Steinbeck, William Burroughs, Truman Capote e Erle Stanley Gardner: contemporaneamente scrive saggi su Robert Motherwelle e Mark Rothko, De Kooning, Ad Reinhardt, e Cy Twombly facendo conoscere in Italia le luci dell’Espressionismo Astratto.
Decentrata rispetto al dibattito critico ufficiale (come del resto decentrati sono Carla Lonzi, Emilio Villa, Mario Diacono, Edoardo Sanguineti e Cesare Vivaldi), Drudi impronta un metodo comparato che, se da una parte scandisce la ritmica del processo creativo, dall’altra fa rivivere l’emozione, l’incontro con l’opera – “Come nell’atto creativo, nell’accoglienza dell’opera d’arte l’inizio è smarrimento: andare verso”, ha scritto nei “18 dipinti e un’acquatinta di Toti Scialoja” (1991), artista che sposa nel 1972 –, mette in evidenza un transito che va dalla lettura alla scrittura, dall’opera al processo critico: «Quando l’evento della presenza si compie, in un quadro, – io la dico, quella presenza, figura – non è per l’avverarsi di una forma prescritta, né per un’assonanza di stile. Figura è la dimensione che il dipinto raduna e emana, l’animazione che gli è propria, il campo di senso da cui parvenza inerti, e che hanno segnato un’oscurità impersonale, si ravvivano dandosi lineamenti eloquenti. [...] Figura designa il volto ricreante e rinnovante del reale che il dipinto dischiude».
Con un approccio intimo e acuto, dettato da “Scelte, luoghi e opere con cui si è trovata a suo agio”, Drudi ha scritto andando verso l’opera, e mai perdendo di vista l’oggetto della sua riflessione. Penna brillante, scrive saggi e traduce, facendo proprio della traduzione un luogo riflessivo, una tensione intima e viva, un “Avanzare come possibile modo dello scoprire”. Del 1958 è Aspect de la peinture italienne contemporaine per la rivista francese Art Aujourd’hui diretta da André Bloc, mentre del 1967 – e bisogna ricordarlo – è la felice traduzione, per Bompiani, di un libro miliare e militare, “L’oggetto ansioso” di Harold Rosenberg (“The Anxious Object: Art Today and Its Audience”, 1964). Ci sono, poi, gli entusiasmi, i romanzi (“Beatrice C”, “Isabella Morra”, “Non era vero”), le redazioni (quella di Arti Visive, ad esempio), amici attenti come Emilio Villa “II critico e l’oracolo dell’arte nuova” (De Marchis) e naturalmente Toti Scialoja, l’amore di una vita, che riporta: «Sei riuscito a dipingere il tuo temperamento mi dice G. Ora devi riuscire a dipingere la tua generosità. Ci sono ancora troppe frange nella mia pittura, e l’idea del ritmo non è spoglia e balzante come dovrebbe. Occorre che lo perda ancora in ricchezza per esprimere più amore. Ma la generosità vera è quella di G. che segui à che dovrei riuscire ad esprimere».