Recensioni / De Sanctis. Critico dell’anima

Un saggio di Alessandroni riflette sull’eredità lasciata dallo studioso irpino, fondatore moderno della nostra critica letteraria

Per una cultura ben piantata sulle sue radici nazionali – come sempre meno, però, è quella italiana –, è quasi impossibile non fare periodicamente i conti con l’ottocentesco Francesco De Sanctis, il fondatore moderno della nostra critica letteraria in un senso assai avvertito delle sue premesse teoriche e culturali. Per innumerevoli motivi: il primo del quale è quello di aver inteso la storia della letteratura italiana come una vera e propria autobiografia della nazione. Senza dire d’un fatto tanto eclatante quanto misterioso: l’essere stato, il nostro critico, parimenti maestro nei due generi ritenuti quasi antipodici: quello storiografico (oggettivo e prospettico, impersonale) e l’altro saggistico (soggettivo e programmaticamente parziale, autobiografico). Maestro di così impareggiabile talento – nonostante certi errori, i fraintendimenti e le forzature –, che mi risulterebbe assai difficile prendere partito per il saggista o per lo storico. Non c’è critico del secolo successivo – poco importa se nell’adesione piena o nel rifiuto drastico – che non abbia dovuto dare almeno una risposta al grande interrogativo De Sanctis.
Arriva ora a riaprire il dossier, per i tipi di Quodlibet, Emiliano Alessandroni – un giovane ricercatore, ma già molto versato nella studio della storia delle ideologie e delle strutture letterarie, dell’estetica di impianto hegeliano e marxista, fino a Gramsci, Lukács e Said –, con un libro anche militante dal titolo L’anima e il mondo. Francesco De Sanctis tra filosofia, critica letteraria e teoria della letteratura. Militante, ripeto: perché, oltre a occuparsi di De Sanctis, si impegna – desanctisianamente mi verrebbe da dire – in un atto d’accusa nei confronti del nostro presente e delle sue mitologie, responsabile primo di quel «diffuso antidesanctisismo di ritorno», per usare le parole di Nino Borsellino che Alessandroni più volte reitera.
Con chi ce l’ha Alessandroni? Quale ideologia – per ragionare hegelianamente, come lo studioso non disdegna di fare – incarnerebbe lo spirito reo di questo nostro tempo? Non v’è dubbio alcuno: l’obiettivo polemico del libro è la «condizione postmoderna». E cioè quella dimensione del pensiero in cui il «senso del reale, l’unità fra le parti, non costituisce più un problema e non ha più bisogno di essere ricercata». Il che comporta, nell’evidente rovesciamento del paradigma hegeliano, l’identità tra reale e irrazionale (se non la vanificazione del concetto stesso di realtà), la svalutazione d’ogni nozione di valore, se non il suo annullamento (che per De Sanctis, nella formulazione del giudizio critico è invece di cruciale importanza), la proclamazione dell’assoluta insensatezza di qualsiasi concezione della storia. Quale altra sorte per De Sanctis, in questo contesto, se non quella di vecchio e inutilizzabile arnese del passato, buono per facili scopi di moralismo e demagogia letteraria? Non starò qui a ricapitolare quanto Alessandroni scrive, per sostanziare il suo discorso, a proposito di desanctisiani e antidesanctisiani: Benedetto Croce e Giovanni Gentile, Antonio Gramsci, Natalino Sapegno e Giorgio Pasquali, Carlo Dionisotti, Gianfranco Contini e Giacomo Debenedetti, Alberto Asor Rosa e altri ancora. Quel che conta qui è concentrarsi – ancora lo spirito militante del libro – sull’eventuale eredità del critico irpino. Che per Alessandroni si tradurrebbe nel ribadimento strenuo del nesso arte-vita (e di un’idea di verità strettamente connessa a quella di realtà), rimosso da Croce e riattualizzato da Gramsci: il teorico meglio attrezzato, anche terminologicamente, per sviluppare la grande intuizione desanctisiana secondo cui, in sede critica, la «delimitazione ideologica» di un’opera, in quanto «ristrettezza d’angolatura» dell’autore che l’ha generata, si rivela sempre, in ultima analisi, come «limitazione estetica». Senza contare che, proprio in virtù della crescente internazionalizzazione di Gramsci, «il rapporto arte vita teorizzato dal De Sanctis, quale principio di valore estetico, finisce per approdare anche al di là dei confini europei».
Sin qui Alessandroni. Non posso esimermi però, sulla scorta di questa proposta interpretativa, da alcune considerazioni, persuaso come sono che il nesso arte-vita, proprio nel senso della lezione desanctisiana, vada verificato ogni volta sulla pagina del singolo critico, anche per eludere i rischi di certi estetismi e vitalismi che, in nome della vita, sono stati senz’altro corsi nel Novecento. Considerazioni per le quali si potrebbe partire proprio da Debenedetti, altro grande maestro nella pratica del saggio, che Alessandroni pare ritenere – se non sbaglio – come l’erede più sicuro, insieme a Gramsci, di De Sanctis. Ed è proprio Debenedetti, con quella sua vocazione agonistica e dialettica, di continua integrazione dei testi interpretati, a fornirci col suo esempio le migliori indicazioni a proposito di un’idea di critica in rapporto, attraverso le opere, con la vita: là dove la vita – ecco il punto – non è il misterioso noumeno che sta fuori di noi, ma è quella del lettore cui il critico si rivolge. Cos’altro è, in effetti, il risultato dell’indagine critica, se non un continuo contributo alla costruzione del senso della vita di chi legge i romanzi e le poesie analizzati? Questo spiega anche perché, dentro il sistema debenedettiano, proprio sulla base della magistrale lezione di De Sanctis, tanta importanza ha un concetto come quello di racconto critico in vista, appunto, delle avventure del senso. Racconto critico – sottolineo – e non romanzo, nel significato postmoderno così vituperato da Alessandroni: in quanto, ovviamente, il racconto critico mira alla verità e ai suoi contenuti di realtà, mentre l’atto postmodernista alla sua euforica e irresponsabile cancellazione. In questa chiave, lo si può tranquillamente affermare: nella storia della cultura letteraria italiana otto-novecentesca, non c’è stato un narratore critico della forza di De Sanctis.