Recensioni / Un anno dopo

Omaggio a Bene con la filosofia di Riccardo III

Difficile trasporre sulla pagipa il suo recitato, quella parlata caotica, sfrontata, irritante, e la sua voce sciamanica, dissonante, intollerabile. Impossibile tenere tra le maglie della scrittura e rilegare in un libro i trucchi che - complice l'uso sapiente e consapevole della tecnologia, dell' amplificazione e del play back, strumenti moderni dell'antica tèchne classica - moltiplica- vano gli effetti del suo metaspettacolo. Ridicolo pretendere di far teoria intorno a una forma di teatro che ambiva consumarsi nell' evento, nella rappresentazione ripetuta e conclusa «ogni sera, e qualche volta di pomeriggio», in una «variazione continua (e intrattenibile) dello stupore». Ammesso smagatamente tutto ciò, con il disincanto che si addiceva a Carmelo Bene (maestro però di incanti e di inganni), tanto vale tacere, rinunciare a discorsi,riletture ed esegesi. E, a un anno esatto dalla sua morte, contentarsi di contemplare, definitivamente e supremamente rappresentato, un finale di tragedia che, spente le luci, lascia il proscenio vuoto. «Il problema - ripeteva Bene - è che l'io affiora, per quanto noi vogliamo schiacciarlo, comprimerlo. Ma finalmente, prima o poi, questa piccola volontà andrà smarrita. Come dico sempre: il grande teatro deve essere buio e deserto». Se con queste parole l'artista salentino sembra dare scacco alla propria morte e trasformare la propria uscita di scena nell'ultimo atto di un dramma, dal fantasma del più famoso dei narcisisti, ci si deve come minimo aspettare ancora un altro coup de théatre. Eccolo infatti, spettrale, ricomparire con la sua personalissima rilettura del Riccardo III di Wllliam Shakespeare, e con quella prosa che, «sovrapposta» ai versi del poeta inglese, è inconfondibilmente riconoscibile come la sua. Nelle Sovrapposizioni che, datate 1979, l'editore Quodlibet (122 pagine, 15 euro) ripropone come un omaggio al grande attore, Bene, più che con il tragediografo, dialoga però con il filosofo Gilles Deleuze intorno al capolavoro shakespeariano. Si filosofeggia dunque di teatro!? Si imbalsama in teoria l'enfant terrible che, indocile, mai si era lasciato addomesticare dalla critica o dagli elzeviri della terza pagina? Non può essere così, se il partner invitato a confrontarsi con il mattatore (e genio della comunicazione teoreticamente più che avvertito) è un pensatore danzante à la Nietzsche: un ballerino del Theatrurn Philosophicum. Tra i due, insomma, c'era una segreta affinità. E la nota di Deleuze al teatro di Bene, Un manifesto di meno, non solo fa eco al titolo di uno dei suoi dram- mi più celebri (Un Amleto di meno, appunto), ma prolunga e fa risuonare più esplicito e chiaro quel che lo spettatore già ascoltava nelle battute dell'attore. Lo spettacolo di Bene, scrive il teoreta francese, «è già un saggio critico su Shakespeare, la critica è essa stessa opera teatrale e le parole cessano di fare testo".
L'incontro tra Bene e Deleuze risale al 1977, l'anno in cui l'artista portò a Parigi Romeo e Giulietta e Riccardo [Il, e corti- spose a un riconoscimento. Nel lavoro del filosofo impegnato a sgretolare il concetto di identità attribuendo alla follia la sua valenza di nobile mania, Bene ritrovò infatti un prolungamento della propria ricerca teatrale. Del proprio accanirsi contro l'io, logorandosi, disse all' epoca, «sulla strumentazione fonica amplificata per stravolgere l'idea di soggetto». Il duetto delle Sovrapposizioni tra due simili demolitori ed equilibristi dello sberleffo, si consuma come un balletto di simpatia e complicità, eseguito acrobaticamente su motivi come l'eterno ritorno e la differenza,la lingua e il gesto, la politica e l'erotica, il potere e la tecnica. L'effetto è coreografico, spettacolare. Tanto più che, a soccorrere l'esilità semiotica della scrittura (poverissima, ovvio, rispetto alle potenzialità espressive del teatro) provvedono le 48 tavole in bianco e nero raccolte nel vo- lume con le foto del dramma storico andato in scena alla fine del '77. illustrazioni preziosissime che, pescate da Manuel Orazi tra gli scaffali polverosi della Biblioteca del Teatro La Pergola di Firenze, tornano a esibire il nudo venusiano di una giovanissima Laura Morante (nella parte di Buckingham), quello rnatronale della Lydia Mancinelli-duchessa di York e la maschera indimenticata del Carrnelo Bene- Riccardo, redivivo fantasma di crudeltà, dal volto pallido di biacca e acceso dai flash.