Talvolta la filosofia si ammala e muore. Come soffocata dalla propria ingordigia di verità, si rivolge contro se stessa. Si spoglia dei panni di dea dell'incertezza per vestire fiducie irragionevoli e un orgoglio che la sfigura. Una delle diagnosi più acute della malattia mortale del pensiero fu elaborata da Emmanuel Lévinas nel 1934. Il filosofo aveva allora cominciato da poco la propria carriera culturale. Dopo aver lasciato nel 1923 l'Ucraina per la Francia, si era avvicinato al cuore della riflessione europea del primo Novecento. A Strasburgo era stato iniziato alle dottrine di Bergson e aveva fatto amicizia con Maurice Blanchot; più tardi, all'università di Friburgo, aveva potuto ascoltare le ultime lezioni di Husserl ed era rimasto affascinato da Heidegger. Ma non erano tempi adatti alla pura teoria. Quando Hitler sali al potere in Germania, il giovane Lévinas si sentì in dovere di prendere posizione e lo fece da par suo. Con un saggio di poche pagine, che pubblicò su una rivista cattolica, e che affrontava di petto lo scandalo intellettuale del nazismo. Già il titolo Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo conteneva un ossimoro provocatorio: cosa poteva infatti avere in comune Hitler con la filosofia. Proprio questa fu la scommessa d Lévinas, ovvero mostrare come sotto la «fraseologia miserabile» del nazismo si nascondesse un radicale errore di metodo.
Nell'hitlerismo – e nel razzisimo che ne rappresentava il vero nucleo concettuale – si nascondeva, secondo Lévinas, «un'attitudine primaria dell'anima di fronte all'insieme del reale e del proprio destino», e dunque una rivolta contro la civiltà occidentale. Per gran parte della propria storia, il pensiero europeo si era basato su un assioma di libertà, sulla convinzione cioè che fosse sempre possibile per l'uomo liberarsi dal proprio essere contingente – e dalla storia stessa – per dirigersi verso un altrove mentale o verso la trascendenza. Il nazismo invece negava questa distanza, essenziale per comprendere la ricerca di verità. Anziché un luogo lontano, un mondo delle idee, un domino divino o la prospettiva di un progresso civile, l'hitlerismo incatenava la verità a una comunità di sangue, a un'immaginaria unità di razza, che legava i suoi membri in una cupa immobilità. Non erano più la fede o la ragione il mezzo per raggiungere la libertà interiore ma era piuttosto la violenza lo strumento ineluttabile di una nazione che pretendeva di avere già la verità in sé.
Tutta l'opera successiva di Lévinas può essere letta come una cura per quest'affezione dello spirito, come un antidoto dialogico per guarire dalla tentazione di una stasi dell'anima e della società. Un libro recente di Francesca Salvarezza analizza le figure di spaesamento a cui il filosofo affidò, negli scritti della maturità, la propria concezione della verità come punto di fuga e interruzione della quiete apparente del reale. Sono concetti come «insonnia» o «scompiglio», attraverso i quali la riflessione teorica si traduce in una sorta di diario esistenziale, in un gusto per la parabola e l'esempio concreto che svela nel quotidiano le strette porte dell'utopia. Anche l'ebraismo diviene per Lévinas metafora, enunciazione paradigmatica di uno scarto dall'inerzia. Ben lungi dal costituire un alibi dogmatico, il suo giudaismo è innanzitutto un itinerario verso il totalmente altro, verso una rivelazione che non si faceva semplicemente «contenuto dell'interiorità» ma restava «non contenibile». Insomma, un richiamo inedito alla religione come nomadismo intellettuale, come inizio di un viaggio, che ha come ultima tappa una verità allo stesso tempo intima e lontana.
F. Salvarezza, «Emmanuel Lévinas», Bruno Mondadori, Milano 2003, pagg. 218, Euro 12,50.
Da ricordare: E. Lévìnas, «Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitierismo», Quodlibet, Macerata 1996, pagg. 96, Euro 9,30.