È il fascino e il mistero della letteratura d'Oriente, purtroppo poco conosciuta fuori dalla cerchia degli specialisti. Ed è un peccato, perché apre mondi meravigliosi. Come quello raccontato da Lu Xun (1881-1936), narratore e poeta considerato il padre della letteratura cinese moderna. Tra il 1924 e il 1926 (in pieno periodo di rivoluzione culturale e sperimentazione linguistica) scrisse l'operetta Erbe selvatiche, una raccolta di testi brevi riconducibili ai cosiddetti "sanwen" ("scritture sparse"), pagine in bilico tra prosa e poesia alla ricerca di un nuovo stile: quello di un autore perfettamente cosciente della tradizione culturale cui appartiene e insieme attentissimo a tutto ciò che di nuovo sta accadendo in quel momento in Europa. I racconti sono delicati e deliziosi, variano dall'ironico al sentenzioso, dalla parabola (si legga L'uomo intelligente, lo stupido e il servo) al teatrale (un bellissimo esempio: Il viandante), dal visionario (spesso la narrazione è un equilibrio tra veglia e sogno) alla prosa poetica, come l'introduzione che dà il senso a queste pagine («I resti putrefatti della vita stanno sulla terra, non generano grandi alberi ma solo erbe selvatiche»). Precisa la nota di Edoarda Masi, la traduttrice.