Recensioni / A ripetizione da Benjamin

Il libro collettivo curato da Marina Montanelli e Massimo Palma, “Tecniche di esposizione. Walter Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte” (Quodlibet 2016) torna sul tema della riproducibilità estetica e politica, oltre a presentare l’inedito della terza stesura del saggio benjaminiano sull’opera d’arte

Se dovessimo salvare un solo saggio dell’intera estetica del Novecento, se dovessimo individuare il luogo in cui un secolo è stato sintetizzato in qualche modo definitivamente, non potremmo non indicare L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica di Walter Benjamin. Queste pagine ci hanno consegnato un intero vocabolario con cui le nostre esperienze e le nostre esistenze hanno potuto, e dovuto, riscriversi e ripensarsi: aura, valore espositivo, politicizzazione dell’arte, estetizzazione della politica. Il saggio di Benjamin ha quella capacità profetica di ricapitolare ciò che è avvenuto prima e prefigurare ciò che è venuto dopo non venendo meno all’urgenza di interrogare il (suo) presente. Ed è in questo compito critico che il saggio sull’opera d’arte si apre a un inesauribile intreccio di piani: l’indagine estetica diventa analisi politica, l’analisi politica a sua volta esplorazione antropologica, la quale si riversa nella ricognizione dei linguaggi tecnologici, che sono le nuove possibilità dell’estetico e così via. Una spirale che fa propri i quesiti ancora aperti di questa confusa contemporaneità che è il nostro tempo.

Fin ad ora abbiamo detto “saggio”. In realtà come è venuto alla luce di recente, le versioni scritte da Benjamin tra il 1935 e il 1936, integrandole fino al 1939, sono ben cinque. Confrontarsi con queste cinque stesure significa rimettere in discussione nozioni date per scontate e acquisite, le nozioni rinvenibili in quella che oggi sappiamo essere la quinta stesura, la versione con cui generazioni di studiosi hanno identificato il saggio sull’opera d’arte. Non quindi un saggio al singolare, ma un’opera in fieri al plurale. Ad aiutarci in questa necessaria nuova lettura che dobbiamo compiere della riflessione benjaminiana ci viene in soccorso la silloge di studi curati da Marina Montanelli e Massimo Palma, Tecniche di esposizione. Walter Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte (Quodlibet 2016). Figlio diretto dei seminari dell’Associazione Italiana Walter Benjamin, il testo è un’opportuna lente di ingrandimento sull’officina Benjamin. Gli interventi (Alessandra Campo, Fabrizio Desideri, Dario Gentili, Clemens-Carl Härle, Marina Montanelli, Massimo Palma, Andrea Pinotti, Mauro Ponzi, Franco Rella, Elena Tavani, Massimiliano Tomba, Francesco Valagussa) sono suddivisi in due grandi sezioni, la prima più centrata sugli aspetti estetologici, la seconda sulle dimensioni più strettamente socio-politiche. A conclusione i curatori dedicano un’interessantissima terza parte di carattere filologico che ricostruisce le varie vicende (anche editoriali) del testo offrendoci la traduzione della prima versione del 1935.
 

È indubitabile che la Dritte Fassung ha richiamato l’attenzione di molti interventi. Come mostra Fabrizio Desideri la classica polarità apparentemente diacronica tra valore cultuale e valore espositivo, che incornicia il momento storico della perdità dell’aura da parte dell’opera si specchia, in modo quasi complementare, in un’altra polarità che solo nella terza versione acquisisce piena luce: la dialettica tra gioco e apparenza. In questo nuovo spazio del mimetico Benjamin può contrapporre una “prima tecnica”, il dominio sulla natura, con una “seconda tecnica”, una mimesis perfettiva, nelle parole di Desideri, capace di realizzare una “liquidazione intraestetica dell’arte tradizionale”. Su questa scia, sull’intreccio di mimesis e aisthesis che la “seconda tecnica” registra, si inserisce il contributo di Marina Montanelli con una suggestiva fenomenologia del tema del gioco e della sua proiezione oggettiva, il giocattolo, che si presenta come un momento non periferico dell’estetica benjaminiana. Il mondo dell’infanzia come polis in vitro in cui il gioco, in opposizione al coercitivo universo del dominio tecnocratico della natura operato dalla “prima tecnica”, si profila come istanza critica e, in ultima analisi, emancipativa. Incentrato sul tema cruciale dell’autonomia dell’artistico è il saggio di Clemens-Carl Härle. Recuperando la nozione di eterotopia, di possibile altrove, da Foucault, Härle mette in discussione l’automatica attribuzione del valore espositivo all’opera d’arte, questo possibile scarto può essere indicato come eventuale fuga liberatoria da quello che sembra essere una fatalità inevitabile del valore espositivo, l’estetizzazione. Ulteriore percorso capace di fuggire questa usurpazione dell’arte da parte delle pratiche estetizzate della contemporaneità appare quello indicato da Mauro Ponzi: una lettura freudiana del saggio di Benjamin, un vero e proprio sottotesto in cui la dialettica, l’interscambio, tra spazio onirico e spazio immaginativo compone un nuovo scenario per l’azione reciproca di soggetto e oggetto, tra principio di realtà e desiderio. A un altro tema nevralgico del saggio di Benjamin, la percezione, è dedicato l’intervento di Andrea Pinotti. Benjamin è collocato tra due estremi all’interno di un’ipotetica storia della percezione, o meglio all’interno di una serie di autori che fanno della storicità della percezione un’idea fondante, seppur problematica. Così il confronto di Benjamin con Riegl e Wölfflin si riverbera nei dibattiti contemporanei sulla “storicità dell’occhio” che hanno visto protagonisti tra l’altro Danto e Carroll, quest’ultimo come significativo interprete critico delle posizioni benjaminiane. A conclusione di questa prima sezione i contributi di Francesco Valagussa e Franco Rella che richiamano la nostra attenzione sull’indebolimento dell’aura e il ruolo centrale del cinema, il primo, e sulla figura di Baudelaire che domina la riflessione benjaminiana negli anni delle stesure del saggio, il secondo.

Circoscrivere L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica alla sola indagine estetica è notoriamente impresa fallace. Gli interventi della seconda parte del volume integrano l’approccio estetologico ribadendo la complessità del saggio benjaminiano attraverso altre prospettive. Dario Gentili ne sottolinea la valenza politica e ne determina i contenuti a partire dall’opportuno confronto con una testo ormai dimenticato, Arte nuova e cultura di massa di Horkheimer del 1941. Massimo Palma ci immette nell’universo città, condanna e destino del moderno, in cui le grandi immagini benjaminiane si intrecciano irreversibilmente: il flâneur, la merce, la massa e il suo “carattere riflesso”. E ancora una volta le due tecniche della Dritte Fassung, in cui si gioca la decisiva partita della definizione di una nuova possibile antropologia moderna: la politicizzazione dell’arte come mimesi critica, come distanza ludica, e critica, con il reale. Anche Alessandra Campo, e questo ci vede persuasi lettori, indica la possibilità di leggere il testo come un saggio di “antropologia politica” in cui la nozione di medialità (tecnologica) si pone come raccordo e modulazione del rapporto tra antropologia e politica. La “seconda tecnica” è qui recuperata per afferrare il passaggio dall’opera d’arte alla techne che se da un lato abbandona le fascinazione del feticcio dell’opera, della “bella apparenza”, dall’altro si imbatte nei rischi attuali di un’anarchia dei dispositivi tecnologici e di una loro conseguente ricaduta nella “prima tecnica”. A rimarcare la centralità del politico è Massimiliano Tomba che legge il saggio di Benjamin come un vero e proprio “intervento politico nel campo dell’arte” attraverso snodi problematici, e decisivi, quali la distruzione dell’aura, la configurazione di un’arte postauratica e. in definitiva. il più generale e complessivo ripensamento del retaggio marxiano di struttura e sovrastruttura. Alla costituzione di una dottrina dell’immagine, nella quale l’immagine prodotta è inscindibile dallo scenario pubblico e politico a cui destinata, è dedicato il contributo di Elena Tavani che oltre al tema dell’immagine riproducibile richiama, molto opportunamente, la nozione di immagine dialettica, una delle più suggestive dell’intera filosofia di Benjamin.

La silloge a cura di Marina Montanelli e Massimo Palma ci invita, ancora una volta, a rileggere le pagine benjaminiane, sebbene non avessimo mai smesso di farlo, a riandare a ripetizione da Benjamin, a ripensarci, per ampliare l’orizzonte, in una frase di Lewis Mumford del 1934, che sa tanto di Benjamin apocrifo, «c’è un’estetica delle unità e delle serie così come esiste un’estetica dell’unico e del non ripetibile». Oppure ci faremo sedurre, come spesso accade, da Warhol, che svuotando l’idea benjaminiana della riproducibilità di ogni pretesa di libertà critica, ci immette nell’estetizzazione contemporanea e che nel 1982 poteva, ignaro di cinque stesure di un saggio mai concluso di un filosofo tedesco e con posa da falso guru mediatico, asserire «La vita non è forse una serie di immagini che cambiano mentre si ripetono?».