Recensioni / Letteratura latina inesistente

Ho realmente tra le mani questo volumetto che reca in copertina l’immagine di un leone arrabbiato (Wael, Atelier dell’Errore, 2011-2013). Posso annusarlo, sfogliarlo e accarezzarlo saggiandone la concretezza materica; esiste in quanto oggetto contenente qualcosa di sfuggente, illusorio, irreale ma al tempo stesso probabile, ipotetico, possibile. Labile è il confine tra potenziale e inesistente, solco sottile percorso da autori che hanno manipolato la parola utilizzandola per creare mondi alternativi, universi paralleli, fantasie iperboliche. È materia che si presta ad essere plasmata, a contorcersi in giochi di sillabe, incastri fortunosi e fortunati; apparentemente costretta a seguire regole vincolanti, essa dà il meglio di sé, pervasa da uno spirito ludico che andrebbe finalmente preso sul serio anche dall’ “accademia”, ammesso che tale istituzione sia reale e non invece una pura astrazione teorica, mummia tenuta in vita dal tacito consenso dei parenti che non si arrendono all’evidenza della morte finché non si siano spartiti l’agognata eredità.
Titolo curioso, indubbiamente, che non poteva lasciare indifferente una ex latinista convertitasi allo studio di altre lingue morte o che non stanno particolarmente bene. Un vero e proprio manuale, scandito cronologicamente e per generi letterari – come nella migliore tradizione didattica – con una splendida appendice dedicata ai profili di illustri filologi, la cui esistenza deve essere colpevolmente sfuggita ai successori di Lachmann e Wilamowitz-Moellendorff. La filologia, lungi dall’essere un’attività solitaria da praticare con moderazione in oscure biblioteche sperdute cercando di non diventare ciechi, è una scienza creativa, talvolta ri-ricreativa, spesso ricreativa, che sconfina sovente nella divinazione, nel tentativo di ricostruire testi perduti o giunti a noi smembrati, mutili, monchi. Un cimitero di cruces desperationis, una fossa comune in cui si mescolano versi, frammenti, particelle di una tradizione classica pervenutaci in modo del tutto casuale e imprevedibile. E in queste lacune, in queste abnormi voragini si insinua l’ésprit ludique di Tonietto, autore di audaci imprese letterarie, tra loro diversissime, accomunate tuttavia da un conclamato anacronismo patologico, da un desiderio di restituire anche a lettori meno avvezzi un immaginario insieme antico e rinnovato, una lingua insueta e densa di sfumature, una parentesi di apparente inutilità di cui, come direbbe il Faustroll di Jarry, si sentiva generalmente il bisogno.
Ecco che riemergono dall’oblio figure quali Aulus Pinna, il cui frammentismo sembra anticipare di un paio di millenni le tendenze di una certa poesia novecentesca, prefigurando scenari di citazione compulsiva sconfinante nel plagio. La prospettiva appare ribaltata: non si tratta di pochi versi sopravvissuti alle angherie del tempo, ma di illuminazioni compiute, potenti, capaci in poche sillabe di tratteggiare immagini imperiture nella memoria dei posteri. Anche di quei posteri che ignorano l’esistenza delle suddette immagini e della loro potenziale origine. Perché in fondo è di lacune inavvertite che si parla. Il potenziale non fa rumore, si nasconde nello scarto tra significante e significato, tra intenzione e atto. In un limbo in cui – come in assenza di gravità – le parole possono recuperare la loro leggerezza, la loro indipendenza, la loro vitalità. Suoneranno familiari all’orecchio i versi di poeti elegiaci quali Faber, Aetius, Gaber, Parnassius, Clarinus, al punto da ritrovarsi a canticchiarli sotto la doccia o ad avere l’impressione di sentirli rievocare alla radio, tra una canzone di Shakira ed un intramontabile classico sanremese dissotterrato di fresco. Una consuetudine affettuosa che dai versi si estende ai comportamenti umani, con sorprendente naturalezza: ogni volta che si profilerà all’orizzonte un ipotetico incontro amoroso, il fantasma di Floscio Gallo riemergerà reclamando uno spazio di verità antropologica, ponendo la sua Institutio amatoria come vademecum del perfetto seduttore che non si fa trovare mai impreparato, neppure di fronte al dubbio fatale: la donna si esprime sempre per antiphrasim o è solo una leggenda che il nolo vada inteso sempre come volo?
Potrei continuare a lungo a descrivere il contenuto di questo insolito manuale, ma lascio al lettore il piacere della scoperta. Mi preme tuttavia sottolinearne un aspetto rilevante: non si tratta di un semplice divertissement ma di una raffinatissima operazione letteraria che mescola istanze potenziali al gusto della riscrittura mimetica, il turbinio della citazione al piacere dell’allusione erudita che per una volta non resta imprigionata in un luogo irraggiungibile ma si offre al lettore in tutta la sua esuberanza. Non quindi semplice parodia, capovolgimento tout court, esercizio di stile che obbedisce a una regola non scritta. Qui l’inesistenza diviene manifesto poetico e poietico, con la leggerezza della piuma e, al tempo stesso, la concretezza della pietra. E la letteratura torna a interrogare se stessa, facendosi finalmente nuove domande. Avvisaglie di inesistenza si erano percepite nel Borges di Finzioni e delle Cronache di Bustos Domecq, scritto in collaborazione con Adolfo Bioy Casares, nella mai troppo lodata opera di Paolo Albani (dal catalogo ragionato di libri introvabili, Mirabiblia, alle recensioni a libri inesistenti del Sosia laterale), fino alla stesura di una vera e propria Enciclopedia degli scrittori inesistenti 2.0 curata da Aldo Putignano per i tipi di Homo Scrivens. Mancava tuttavia un approccio filologico che conferisse a tale operazione letteraria, pur raffinatissima e divertente, uno spessore diverso, una struttura solida, un senso profondo. Il gioco come estrema forma di opposizione e dissenso, come piccola rivoluzione inavvertita. E l’inesistenza come spazio in cui tornare a sperimentare nuove forme, nuove idee, nuove scritture.