I libri sui cantanti d’opera sono molti, anche in lingua italiana, e non da ora; ma sono pochissimi quelli che sanno rinunciare al fasto dell’edizione, alla ricchezza dell’iconografia, al profluvio degli elogi sperticati (magari a nome di colleghi consultati appositamente e quindi tutti inesorabilmente uguali). Questo Mille e una Callas (che ricorda un po’ Cento e una, la molto callasiana discografia sulla Traviata che sta in Verdi. Tutti i libretti d’opera a cura del sottoscritto, Roma, Newton Compton, 1996, 2009³) sa rinunciare parecchio, al prezzo di eliminare anche tutti quegli apparati di cronologia, repertorio, discografia che in verità sono sempre molto utili. Ma è anche così che il grosso e composito tomo, qua e là appena attraversato da qualche modesta ma significativa fotografia in bianco-nero e da qualche calzantissimo esempio musicale, mette le mani avanti, profilandosi come lavoro autenticamente critico e musicologico: tale nel vero senso di una ricerca che al di là del canto e della musica voglia lambire la filologia, la psicologia, la sociologia, anche l’estetica della musica. Tanto che capita spesso che un suo saggio prenda le mossa dalla lontana, abbondi di dotti riferimenti letterari, s’addentri e s’aggiri comodamente nello spartito prima di pervenire allo specifico dell’arte di Maria Callas.
Scomparsa a 53 anni nel 1977, nel 2007 trentennale della morte Maria Callas è stata oggetto di un convegno all’Università di Roma Tre. Dopo nove anni, come sempre faticosi ma non vanamente, quelle relazioni hanno visto la luce della stampa facendo in tempo a crescere di numero e quindi a coprire ancora meglio l’ampio spettro tematico. Sono ben 36 i saggi della raccolta, ordinati in sei sezioni e recanti tutti firme di musicologi, critici musicali, scrittori, musicisti, registi, studiosi e uomini di teatri diversi: la prima sezione, Corpo e voce, spazia dalla voce stessa alla «ricezione queer»; la seconda, Sulla scena, perlustra lungamente parte del repertorio (Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi e oltre) e della colleganza direttoriale; la terza, Medea, si dichiara da sé attorno all’opera di Cherubini, però procede fino al film di Pasolini; la quarta, Il modello Callas, tocca e chiosa le registrazioni, l’insegnamento, la critica; la quinta, Ricordi, si articola tanto da appellarsi fra gli altri ad Alberto Arbasino, Paolo Poli, Franca Valeri; la sesta, Il mito, raggiunge perfino il cinema, la pittura, la moda.
A questo punto un promemoria si rende indispensabile. Soprano greco naturalizzato statunitense, Maria Callas (New York 1923 – Parigi 1977) ha studiato ad Atene con Elvira de Hidalgo, ha cantato qua e là con l’intervallo della guerra, ha esordito alla grande nel ’47 interpretando La Gioconda di Ponchielli all’Arena di Verona: così ha avviato una foltissima teatrale cantando un repertorio di 52 opere, purtroppo soltanto fino al 1965; e in seguito ha tenuto appena qualche concerto fra il ’73 e il ’74. La voce: molto estesa, dal formidabile registro di petto ai sovracuti penetranti, eterogenea, diseguale nel registro di mezzo e attorno al passaggio; originale di timbro, immediatamente riconoscibile, non classicamente bella ma affascinante e piena di pathos, certo più cavaraggesca che raffaellesca. La tecnica: perfetta, completa, dall’emissione alla coloratura. L’interpretazione: onnipotente, pregnante di significato in tutti gli stili dal Sette al Novecento (specie italiano). Eccelsa come Medea, Bolena, Amina, Norma (personaggio cantato 92 volte), Violetta, Gioconda e Tosca; eccellente o notevole anche nel repertorio comune, la Callas ha contribuito alla riscoperta di opere dimenticate e alla rinascita del belcanto. È stata mito e mito rimane dopo la morte, nonostante le critiche frequenti e feroci, anche in grazia di una imponente discografia ufficiale e ufficiosa, di una bibliografia molto superiore alla media canterina, da oggi anche di questo volume. Nella premessa, operisticamente detta «preludio e scena», i curatori dichiarano di saper bene come non tutto l’universo callasiano abbia potuto esser indagato; e hanno ragione a sostenerlo, stante un tipo di interpretazione che nulla lasciava al caso, che tutto sottoponeva a studio e gusto, che l’enorme musicalità d’origine disciplinava con un’onestà totale, che insomma vestiva la profonda genialità della musicista con l’abito «superficiale» ma necessario di una professionista fatta ragioneria di sé stessa.
In tanto lavoro critico, non era facile, forse non era possibile che la trattazione scendesse anche nei particolari vocal-espressivi di un’Ifigenia, un’Aida, una Kundry, una Mimì. Però qualche ritaglio sulla colleganza sopranile, dalla vecchia maestra a succedeanee come la Gencer, la Sutherland e la Caballé poteva starci, così come qualche considerazione di più sulla singolarità di una voce talmente estesa ai poli da soffrire alquanto sull’equatore (basterebbe, all’uopo, ascoltare il finale della Norma delle Norme, «Deh! Non volerli vittime», che mette a repentaglio il registro centrale proprio perché batte e ribatte la stessa nota poco felice). E anche sul timbro: perché chi oggi come allora insiste sulla «brutta» voce della Callas rischia di confondere il timbro con la pasta, il corpo, lo spessore della voce (questo effettivamente difettoso); e perché il timbro vocale della Callas, lucido, corrusco, fiammeggiante, è d’una originalità assoluta. Male che vada, è un timbro romantico piuttosto che classico. Ma siccome anche il belcanto classico ha tratto da lei linfa vitalissima, ecco che quel timbro inconfondibile rimane una delle risorse primarie di quest’artista millenaria.