Recensioni / Il fascino di uno scrittore analfabeta. Ghizzardi e i suoi ‘ricordi’

Era il giugno 1977 quando Pietro Ghizzardi (1906-1986) sbarcò a Viareggio: andava a ritirare il premio “Narrativa opera prima” che aveva vinto con Mi richordo anchora, stupefacente esempio di scrittura primitiva eppur dotata di vivido magma: una vittoria su cui pochi avrebbero scommesso quando Einaudi aveva pubblicato il libro l’anno prima. L’autore si trovò tra gente importante: salivano sul palco del premio Davide Lajolo, Tommaso Landolfi e Cesare Brandi; per l’opera svolta a favore della cultura era stato premiato anche Pietro Nenni. Quando venne il momento dell’intervista alla Rai, il politico s’impadronì del microfono e non lo lasciò più, tanto che a Ghizzardi non rimase il tempo di dire alcunché. Non dovette dispiacergli: era uomo timido e riservato, come spesso sono le anime contadine.

Il libro era stato pubblicato in una collana speciale dell’Einaudi: la serie ‘bianca’ dei “Coralli” che, con grafica di Giulio Paolini, era una sorta di evoluzione dei Coralli, il laboratorio einaudiano gestito da scrittori (prima Pavese, poi Vittorini e Calvino) in collaborazione con artisti al fine di contaminare letteratura e arte visiva delle copertine. Ma nella serie speciale, la semplice coperta a fondo bianco con autore e titolo stampati in due diversi colori, invitava il lettore verso un’attenzione totale al testo. Infatti il catalogo storico della casa editrice indica la serie “bianca” come contenitore di «testi di ricerca letteraria e opere con valore sperimentale». E così fu, anche se l’esperimento di collana si estinse già nel 1978 accogliendo, oltre a Ghizzardi, la sceneggiatura A boccaperta di Carmelo Bene, L’arrivo della lozione di Sebastiano Vassalli, La banda dei sospiri di Gianni Celati, Zona ombra di Italo Cremona, Tre sogni di Ugo Leonzio, Pitonessa di Silvana Castelli e Rosa Fumetto di Alberto Gozzi.

Uscito il 17 luglio 1976 dalle rotative dell’Officina Grafica Artigiana U. Pinelli di Torino – tipografia di riferimento negli anni d’oro dell’Einaudi – il libro era a cura di Giovanni Negri e Gustavo Marchesi, con una nota di Cesare Zavattini. L’interesse fu immediato: Ghizzardi fu subito inserito nel solco della letteratura selvaggia, degli ‘scrittori non scrittori’; ma fu Angelo Guglielmi qualche anno dopo a meglio definire la sua posizione, quella di un analfabeta che tuttavia manifestava l’efficacia dello scrittore, un ‘primitivo’ che sapeva suscitare vita nelle sue scene e figure, dotato com’era d’irruenza linguistica.
L’edizione si esaurì, e anzi: è diventata una ‘prima’ ricercata che, essendo abbastanza rara, emerge ogni tanto nel mercato a quotazioni attorno ai cento euro. Era pertanto necessaria una riedizione che, avvenuta presso Quodlibet (2016) riprende la curatela di Negri e Marchesi, ma con introduzione di Alfredo Gianolio: si rinuncia insomma alla nota di Zavattini che apriva la prima edizione con l’accattivante titolo Anch’io ricordo ancora, testo che vale la pena rileggere poiché dipinge l’autore in tratti arguti e sintetici: «C’è un uomo nella bassa sui settant’anni che si chiama Pietro Ghizzardi ed è un grande uomo. Ma da parecchio prima che cominciasse a dipingere e a far parte della trinità padana dei naïfs, Ligabue Rovesti e lui. La pittura non c’entra per il tipo di grandezza cui mi riferisco, essendo grande perché ha sofferto grandemente, perché è stato umiliato grandemente, e nelle pagine di questo libro con qualche accento profetico domanda: “Fino a quando continuerete a fare questo?”. Io lessi le sue memorie quando erano in boccio e dissi: “Corro subito ad abbracciarlo”. Poi non corsi ad abbracciarlo, passa del tempo, si dimentica, questa è la vita, e si onora purtroppo più facilmente un artista che un uomo. Lo incontrai dopo alla prima mostra luzzarese dei naïfs, al pranzo invernale dopo la mezzanotte, diventato ormai rituale, tutti avevamo trovato il nostro posto a tavola e Ghizzardi no, ricordo ancora che se ne stava in piedi in un angolo con la paura di disturbare, sdentato, il paletò abbottonato male».

Bracciante agricolo nato a inizio Novecento nelle campagne di Viadana, Ghizzardi presto scoprì che gli piaceva dipingere e per l’indole del tratto si ritrovò tra i naïfs, di cui la contigua Gualtieri aveva già partorito il pittore Bruno Rovesti e la schiatta di Antonio Ligabue. Non avremmo saputo che oltre al pennello stringeva la penna, se un giorno un amico non avesse sorpreso Ghizzardi a scrivere, in un quadernone nero aperto sul bordo del pozzo, delle memorie. Erano spezzoni di vita e di storia nei quali ricorreva incessante l’incipit «io mi richordo anchora». Da qui l’editore trasse un titolo che, involontariamente, svela una meccanica della memoria: Ghizzardi comincia da un ‘richordo’, poi ne emerge un altro, un altro ‘anchora’ e così via, a formare la collana biografica di un uomo che trova nei ‘richordi’ una sostanza di vita. Il quadernone sollevò l’attenzione di Gustavo Marchesi, e da lì partì la trafila che aprì le porte di Einaudi a un libro fortunato: se solo osserviamo chi vinse il Viareggio per ‘opera prima’ nei tardi anni settanta – Luigi Podda, Mario Isotti, Giulio del Tredici, Olivo Bin, Mario Griffo – è facile concludere che qualche popolarità è toccata solo a lui, a Ghizzardi.
Il valore dell’opera scaturisce dal fatto che Ghizzardi era un analfabeta che aveva scritto memorie in una lingua improbabile, ma presto rivelatasi alquanto singolare. Avendo vissuto tra gente che parlava in dialetto, poteva esprimersi in quel casalasco viadanese reso incisivo dalla natura emiliana, e invece no, scelse di scrivere seguendo l’italiano e generando un linguaggio che, non subordinato ad alcuna norma, si rifaceva agli aggregati verbali e al ritmo della lingua nazionale. La ricompose in un flusso che a prima vista poteva sembrare un grammelot, un’arbitraria sequenza di suoni, e che invece generava una scrittura che sapeva di pagina letteraria.

Il miracolo di originalità si accese nel passaggio dalla pronuncia alla scrittura: se gli scrittori aspirano a uno stile personale, Ghizzardi riuscì nell’opera grazie all’inconsapevole formulazione di una grammatica e una sintassi colme di solecismi. E di una grafia che – testimone chi l’ha vista – perpetuava sulla carta la sua natura di pittore. I principali caratteri di quella lingua, priva di punteggiatura e senza maiuscole, affiorano solerti alla lettura: Ghizzardi segna le consonanti gutturali aggiungendo una ‘h’ (chucina, chroce, cholore) e sostituendo la esse sibilante con la zeta (chaza), oppure compone secondo il suono della parlata (‘la bittudine’ per ‘l’abitudine’). Il risultato non è un gergo alienato, ma qualcosa che s’infigge nella carne, flusso dotato di un istintivo laicismo che affiora potente quando Ghizzardi stila una sorta di volontà testamentaria e chiede di essere cremato «sensa la chroce perché io dalla mia nassita e fino al giorno di oggi dal piu e il meno sono sempre stato in chroce e per quéllo che non posso piu vedere la chroce».

È tale l’originalità lessicale da far passare in secondo piano il contenuto dell’opera: la vita faticosa, anche dolorosa di un uomo che fa il bracciante e anche lo stradino, uno di quegli uomini che la storia non la fa ma la subisce: destino comune a quelle creature di campagna che, stremate fin dall’adolescenza dalla fatica, non hanno potuto andare sui banchi di scuola ad apprendere una lingua, o ci sono andati subendo la disfatta (tre volte Ghizzardi fu bocciato in prima elementare).

Uomo semplice legato alla propria terra, da Viadana Ghizzardi si trasferì di pochi chilometri a Boretto, sull’altra riva del Po, dove scomparve nel 1986. Ha detto Alfredo Gianolio in Vite sbobinate (altro singolare titolo Quodlibet) che «tutti al fondo della loro coscienza sono naïf, perfino i direttori di banca; ma le persone normali hanno spesso questa naïveté sepolta sotto strati di stereotipi convenzionali, di luoghi comuni, di vecchiumi di diversa tipologia che valgono nell’insieme come rete protettiva in ambito sociale. Occorre un’opera di scavo per disseppellire l’originaria condizione umana». Con Ghizzardi non era stato necessario: era un limpido naïf per natura. E le sue memorie sono prova di quel genuino candore.

NOTA
Come la serie “bianca” Einaudi, anche “Compagnia Extra” di Quodlibet predilige testi letterari con un certo valore sperimentale. Ragion per cui non solo Ghizzardi è stato là ripubblicato, anche La banda dei sospiri, forse l’opera più originale e buffa di Celati.