Proficua indagine su una ossessione: il testo di Kant del 1783 sull’Illuminismo
Nella bibliografia sempre più ampia dedicata a Michel Foucault ci si imbatte spesso in tentativi di ricostruzione che finiscono per ingabbiare il suo pensiero in una dottrina. Rudy M. Leonelli propone invece una chiave di lettura viva e produttiva del suo pensiero: senza rinunciare al rigore anche filologico, non mira a ristabilire al meglio la «lettera» dei testi di Foucault, ma scava Messi per coglierne gli stimoli operativi, la loro vocazione intimamente politica. Il suo Illuminismo e critica. Foucault interprete di Kant (Quodlibet, pp. 106, €15,00) ruota intorno a un famoso, breve scritto kantiano del 1783, la Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo, secondo i più uno scritto d’occasione privo di grandi ambizioni filosofiche, ma che per l’ultimo Foucault diventò quasi una fissazione: fra il 1978 e l’anno della morte ci ritornò più volte in conferenze, saggi, interviste, costruendo un arcipelago di riferimenti che danno corpo a un vero e proprio progetto filosofico.
Leonelli, che è partito da esperienze di lotta negli anni Settanta e dall’esigenza di ripensare l’eredità di Marx, legge in quei testi l’elaborazione più compiuta di una domanda che attraversa il pensiero di Foucault fin dall’inizio: come si può comprendere il presente? Già dagli anni Sessanta, il filosofo francese leggeva nella filosofia il compito di fornire una «diagnosi» del presente. La lettura di Kant aggiunse un elemento decisivo: la necessità di mettere in discussione anche le premesse del proprio pensiero, di problematizzarle sempre di nuovo, assumendo un atteggiamento ostinatamente autocritico.
«Genealogia» è la parola chiave per inquadrare questa operazione: Foucault l’aveva presa da Nietzsche e l’aveva definita come l’analisi che si sviluppa a partire da un problema del presente». Ma la genealogia – osserva Leonelli – non è un metodo, un sistema, bensì un programma di filosofia critica, che tende a prendere anche la forma dell’autocritica e a diventare «genealogia della genealogia». Nel suo saggio, ricostruisce con molta efficacia il contesto in cui cade l’operazione tentata da Foucault: lo strutturalismo e la fenomenologia di Merleau-Ponty in Francia, la Scuola di Francoforte e Habermas in Germania, strategie diverse di coltivare un rapporto con la radice illuministica della filosofia moderna, ma vie più anguste, secondo Leonelli, rispetto all’ambizione di ricostruire anche un’idea di Europa a partire dalla riattivazione dell’illuminismo.
Se l’appello alla ragione aveva in origine una forza emancipatrice, com’è possibile che abbia condotto agli eccessi e persino al «furore del potere»? Com’è stato possibile che lo sviluppo della razionalità di governo abbia dato luogo a tragedie come quella del nazismo e del totalitarismo? Foucault risponde con un profondo atto di fiducia: la ragione è per lui abbastanza forte da accettare di sottoporsi a una autocritica, liberandosi, in qualche modo, anche di se stessa. Per arrivare a problematizzarsi, però, la ragione deve mostrare coraggio, altro tema affrontato da Foucault nei suoi ultimi scritti. Kant citava un motto latino, sapere aude: abbi coraggio di conoscere. Foucault precisa che non è un appello morale, non è un sermone, ma una precisa indicazione su ciò che ci è richiesto per «conoscere i limiti della conoscenza» e smarcarsi dal gioco che lega la verità al potere.
Il coraggio come risorsa dell’autocritica filosofica, sostiene Leonelli, è ciò che dà sostanza politica al programma illuministico di Foucault e che permette di vedere ancora nei Lumi ciò di cui abbiamo più bisogno in tempi che si annunciano bui.