Recensioni / Il tesoro misterioso della visione periferica

Pregio di questo libro è di saperci condurre alla scoperta del preconscio percettivo: un mondo di cui tutti noi facciamo esperienza senza però prenderne quasi mai consapevolezza, senza farci caso, sogguardandolo a malapena e di sfuggita, con la coda dell’occhio. Mentre si tratta di un mondo vitale, fondamentale per tutti: un mondo enigmatico che rivela tutta la sua ricchezza se – con una torsione paradossale e insostenibile di cui solo un’artista può essere capace – questa coda dell’occhio, questa visione periferica viene portata al centro dello sguardo, e trasformata in una presenza che intensamente ci si mostra, ma mantenendo intatto tutto il tesoro misterioso della sua perifericità.
Il libro di Marina Ballo Charmet si apre con una citazione tratta da L’occhio e lo spirito di Maurice Merleau-Ponty (SE, 1938): “L’occhio è ciò che è stato toccato da un certo impatto con il mondo”. Una riflessione che ci fa comprendere subito quali siano i profondi interrogativi che sostengono il suo percorso artistico e teorico: fin dai primi lavori si chiede infatti come rovesciare lo sguardo prospettico della fotografia in un “percepire, non guardare”, basato su una mutua implicazione, dove l’individuo non pretende più di descrivere e dominare il visibile, ma si fa toccare da esso, ponendosi in una posizione empatica di “attenzione fluttuante”: una postura percettiva dove il soggetto non proietta narcisisticamente se stesso e le sue emozioni sulla realtà, ma accetta di perdere centralità, di esporsi all’ascolto dell’incerto e di entrare in uno spazio di visibilità che non ha padroni. Dunque, come uscire da un vedere sicuro di sé, inteso quale pura apprensione delle apparenze, del già noto o dell’immediatamente visibile? Ballo Charmet affronta queste problematiche relative alla percezione – dove si intrecciano i temi fondamentali del corpo e della visione, dell’empatia e della nostra relazione con il mondo – mettendosi in gioco con sincerità e rigore, costruendo una narrazione in cui ci accompagna in un approfondimento teorico e di crescita personale: una sorta di percorso riflessivo e autobiografico, che ripercorre la sua formazione, le sue esperienze (come quella, fondamentale, di psicoterapeuta dell’infanzia e di insegnante di fotografia in una scuola elementare), gli incontri con le opere degli autori che hanno nutrito e stimolato le sue riflessioni e il suo percorso artistico (Henri Le Secq, Raoul Hausmann, Robert Adams, Lewis Baltz e altri). Un viaggio che va anche al di là dello specifico autobiografico per porre domande essenziali: come si può rendere con la macchina fotografica un’esperienza visiva basata sull’ascolto, sulle ragioni del corpo e non solo dello sguardo? Che cosa vediamo senza sapere di vedere? Come uscire dalla logica distanziante della rappresentazione per avvicinarsi a quella della presenza?
Dalla sua serie più nota, che dà anche il titolo al libro, emergono significativi tratti del suo modo di operare, mai separato dal pensare e sentire. Importante la scelta di un tema periferico – in questo caso i bordi sconnessi e trascurati dei marciapiedi – ovvero di qualcosa “senza valore”, che sta ai margini del nostro guardare e che vediamo “con la coda dell’occhio”, quasi inconsapevolmente. Ma l’autrice guarda non dall’alto della nostra abituale posizione di homo erectus, bensì decentrando lo sguardo verso il basso, la terra, all’altezza dell’occhio del bambino. L’occhio che si abbassa e si fa corpo non è più allora l’occhio dominatore che si muove intenzionalmente dall’io verso l’altro, che isola dallo sfondo quel che appare significativo, sradicandolo dai legami e dal contesto che gli dà vita: è invece un organo che sente le cose e le avverte quali presenze; occhio che rinuncia a un vedere nitido, tutto a fuoco, per suggerire un’attenzione diffusa, mobile, oscillante. Dunque è importante dare spazio “a una percezione vaga, fluttuante, collegata al preconscio, un modo di guardare, dunque di conoscere cose, oggetti, fenomeni non presenti alla coscienza e che giacciano come dimenticati”. Nella serie Primo Campo sceglie addirittura di mimare lo sguardo di un bambino piccolo in braccio a un familiare, di cui non vede il volto ma avverte la presenza intima. Un’operazione resa possibile dalla sua formazione psicoterapica e psicanalitica, dove viene data molta importanza all’esercizio di identificarsi con i bambini neonati. Il risultato è un lavoro che esce da una logica visiva basata sulla riconoscibilità – cioè sul che cosa mostra e rappresenta un’immagine – ma che suggerisce un’esperienza tattile, quasi olfattiva, uno “star dentro e non solo di fronte”.
Ballo Charmet sa guidarci dentro un pensiero teorico che si fa esperienza, crescita interiore, riflessione intima, e dialogo serrato con filosofi quali Merleau-Ponty, Maria Zambrano, Michel Foucault, o con psicologi come Anton Ehrenzweig e Salomon Resnik, esploratori della “visione periferica”. Il testo è arricchito da molte riproduzioni in bianco e nero delle proprie opere e di quelle dei fotografi che l’hanno “colpita” e coi quali si è confrontata. Ma se ritroviamo qui questi altri autori, non è solo perché la loro presenza accompagna la lettura come una sorta di “promemoria” ragionato. Essere “colpita” infatti significa lasciarsi nutrire, crescere, venire trasformata dai lavori di tali artisti.
Nel capitolo finale, La misura del lavoro. L’installazione, ci fa comprendere come le sue opere richiedano dimensioni ingrandite, dilatate, così da essere percepite quali “presenze iperpresenti”, cioè forme talmente vicine, prossime, avvolgenti, da comunicarci una sensazione “di spiazzamento, dilatazione ed estraniamento percettivo, cercando di mettere in contatto lo spettatore con un`esperienza latente, preconscia”.