Recensioni / Una via italiana alla teoria queer

Se i nomi di Teresa de Laurentis, Judith Butler, Eve Kosofsky Sedgwick, e le loro letture queer, non sono ormai così inusuali all’interno del dibattito, sociale e letterario, italiano, Non aver mai finito di dire. Classici gay, letture queer di Tommaso Giartosio rimane un libro eccentrico. Eccentrico innanzi tutto perché, fatte salve sparute eccezioni (da ricordare almeno Il Gay del compianto Paolo Zanotti, del 2005) lo sviluppo della teoria queer è stato nel nostro paese difficoltoso e stentato, spesso osteggiato tanto nel campo politico, con posizioni difensive e di retroguardia se paragonate a quelle americane ma anche a buona parte dell’Europa, quanto in quello degli studi specialistici e accademici. Accostare poi un pensiero che, nato in seno agli studi femministi e di genere, si propone una critica radicale dell’identità (soprattutto, ma non solo, sessuale) a concetti a forte connotazione identitaria quali “classico”, “tradizione” e addirittura “canone” può apparire – e di fatto è – strano (ma queer significa appunto, e letteralmente, strano).
Strano ma non certo inutile se, come avverte l’autore nelle pagine iniziali, serve a mettere in discussione le nostre idee ricevute sulla tradizione e mettere in crisi l’idea stessa di canone, ritornando a pensarlo come «uno spazio che si espande e contrae, cardiomorfo» piuttosto che come dato indiscutibile. Un merito non indifferente dell’autore – e un ulteriore elemento di eccentricità del volume – è quello di programmaticamente rifiutare la furia provocatoria e distruttrice che spesso ha animato – e anima – una certa critica derivativa statunitense: perché se lo scopo è far tremare i paradigmi identitari, contestarne l’assolutezza o naturalità in vista di un loro «semiutopico superamento», non si può certo fingere che essi siano fondati «sul nulla». Quella di Giartosio è, insomma, una posizione ragionevole (suo l’aggettivo) e mai moralistica, poiché ciò che conta in un classico non è il contenuto etico ma la sua «etica dei contenuti», il suo «mettersi in gioco, facendosi carico dei suoi (pre)giudiuzi e tematizzandoli senza la stampella dei luoghi comuni». Sempre attento al testo, Giartosio costruisce quindi un ponte tra la critica americana di riferimento e una tradizione filologica tutta italiana. Si veda, ad esempio, l’analisi del linguaggio «allusivo e elusivo» dei Promessi sposi nell’incontro tra Lucia e Gertrude; un linguaggio che secondo l’autore evoca «il lesbismo conventuale» ben presente in una delle fonti acclarate di Manzoni, la Religieuse di Diderot. Pur confermando che il saggio ha «anche una funzione provocatoria», Giartosio non vuol certo esaurire i Promessi sposi in una lettura che ne evidenzi l’omofobia quanto, piuttosto, indagare come l’esperienza biografica (il collegio e l’incontro «scandaloso» con Gaetano Volpini, cui il Manzoni sedicenne dedica anche una invettiva in quartine nella quale lo accusa del «vizio innominabile») e l’ambiente storico e sociale (la Milano fortemente omofobica del tempo) abbiano contribuito a formare quella condanna dell’omosocialità, e dell’omosessualità come sua radicalizzazione, che innerva il romanzo.
A ben guardare i dodici saggi che costituiscono il volume, e soprattutto quelli su Manzoni, Isherwood, Auden, Mishima, Proust e Curradi non formano propriamente un canone, ma riconoscono una costellazione utilissima per orientarsi all’interno di una tradizione possibile e mobile da individuare (e discutere) di volta in volta. Altri saggi, come Tirato in ballo: una nota su Dante e Un’occhiata ai cattivi: una nota su James Bond, che entrano senza mediazione nel merito del dibattito politico contemporaneo (la censura, a causa dei suoi pregiudizi omofobici e religiosi, della Commedia da parte dell’associazione Gherush92 e la messa in scena, per la prima volta, di un James Bond apertamente bisex), possono apparire (e sono) più occasionali. Ma non sono meno importanti per il disegno generale, che è sempre, come vuole il pensiero queer, anche politico: che si tratti di svelare la persistenza dell’omofobia (magari mascherata attraverso un’ambigua accettazione) o di denunciare l’illusione di un pacifico superamento della differenza omosessuale, il discorso di Giartosio – che parla esplicitamente (e giustamente) di impegno civile – torna sempre all’attualità e alla prassi. Se è vero, come nota l’autore nel densissimo saggio Da Flaubert a Flobert: lo scrittore gay oggi, che la «concezione vertiginosa della differenza gay» propria del modernismo è oggi irrecuperabile, e che la posizione che «ogni intellettuale farebbe bene a immaginare per rispecchiarsi in essa» è probabilmente quella del clandestino, l’esperienza gay – nei suoi paradossi e nelle sue contraddizioni (la militanza e l’edonismo, l’identitarismo e l’individualismo) – è «profondamente imbricata con il nostro mondo»; è ancora «esemplare perché pienamente, oscenamente rappresentativa delle contraddizioni del nostro tempo». E ci riguarda tutti.