Recensioni / Come scivolare nella lotta armata

Il nome di Marina Premoli suonerà familiare solo a pochi specialisti degli anni di piombo. Ma le vicende della sua vita – infanzia e giovinezza, militanza e carcere – raccontano qualcosa di universale sul rapporto tra donne e violenza politica: il ruolo dell’amore nell’esperienza femminile della lotta annata, la contaminazione tra sentimenti e ideologia. Ovviamente in Questa è già la mia vita (Quodlibet) c’è molto di più: la rievocazione impietosa di tutti i fatti, gli incontri e i complessi che hanno portato l’autrice a scivolare – si direbbe – nell’eversione armata. Un libro che più che un’autobiografia sembra l’appunto di un sogno, tanto è dettagliata e priva di egocentrismo l’esposizione degli eventi, tanto è telegrafico, quasi sonnambolico, lo stile in cui sono narrati.
Marina Premoli nasce a Genova nel 1941 in una famiglia aristocratica di origini trentine (nel ’68 il padre sarà eletto senatore nelle liste del Partito liberale); trascorre infanzia e adolescenza tra Roma, Parigi, Bruxelles e Londra; poi, giovane donna, è a Milano, insicura, talentuosa e alcolizzata, tra salotti di sinistra (dove si sente «un’analfabeta intellettuale») e frequentazioni extraparlamentari (e qui si sente «un’analfabeta politica»). Nel ’71 ospita il primo «compagno in difficoltà». A Roma, dove «non è facile incontrare un operaio», ne conosce uno dell’Alfa Romeo e tre anni dopo, piuttosto controvoglia, lo sposa (oggi commenta: «un’arrampicatrice sociale a rovescio»). Da qui, una danza di avvicinamento al fuoco, l’amore per un altro operaio (Sergio nel romanzo, nella realtà Pietro Mutti, fondatore dei Proletari armati per il comunismo) e la scelta di seguirlo nella clandestinità.
Nel 1980 passa con lui a Prima linea, dove ha un ruolo eminentemente organizzativo: compra e affitta appartamenti, falsifica documenti. Il suo corpo si ribella causandole vertigini e mancamenti; ha il terrore di usare le armi e, in effetti, non sparerà mai. Scrive: «A rivedere la mia vita col binocolo rovesciato – quello del senno di poi – rimango senza parole. Senza fiato. Ma tant’è». Arrestata nel 1981, è tra le terroriste liberate il 3 gennaio 1982 con l’assalto al carcere di Rovigo, che causa la morte di un passante. Poco dopo viene catturata: trascorrerà a Rebibbia i successivi quindici anni. L’epigrafe dell’ultimo capitolo è dall’ultimo atto della Traviata, il commiato tristissimo e romantico di una donna che ha amato molto («Addio, del passato bei sogni ridenti; le rose del volto già sono pallenti…»). L’assenza di speranza, tipica degli incubi, concede in questo libro una sola deroga: è la testimonianza di un legame indissolubile tra chi si è voluto bene, anche se magari si è solo incrociato, in quegli anni fatali.