Recensioni / A tavola con l'Hyperion

[…] In questi giorni mi è capitato di leggere «Questa è già la mia vita», bella e sincera autobiografia di Marina Premoli, appena uscita per Quodlibet. Prima di arrivare al resoconto dell’entrata in clandestinità nel 1978 – cosa che accade quasi all’improvviso e precipitando –, Marina racconta l’infanzia vissuta tra Roma, Parigi, Londra e Bruxelles. Cresce insieme a una famiglia cosmopolita, agiata e borghese (il padre fu senatore eletto a Venezia del Partito Liberale). L’adolescenza trascorre a Roma con ragazze e ragazzi del suo stesso ambiente; poi, a Milano, arrivano le esperienze professionali e amicali nel mondo dell’editoria («partecipo con i compagni della Rizzoli a varie manifestazioni cittadine»), infine le schizofreniche e faticose frequentazioni divise tra il lavoro politico di fronte ai cancelli dell’Alfa Romeo e i weekend trascorsi nella vecchia villa di un industriale, «tra Santa Margherita e Portofino, circondata da prati e frutteti», in località Scirocchetto. Non lontano da Scirocchetto c’è perfino un capanno restaurato da Gae Aulenti, che fa parte del gruppo di amici. È una parabola perfetta allo scopo di attivare uno dei pregiudizi e misunderstanding culturali più diffusi sulla generazione della lotta armata. In realtà non solo a Marina Premoli non corrisponde il cliché caratteriale della ragazzina di buona famiglia che nel ’77 briga con i compagni e gioca con la rivoluzione, ma più in generale il milieu in cui la lotta armata nasce, soprattutto nel momento in cui appare all’inizio degli anni ’70, fu un altro e fu genuinamente operaio-studentesco e proletario-piccolo borghese. Basta studiarsi la socio-statistica raccolta in merito o ascoltare e riascoltare le parole pronunciate da Valerio Morucci, Prospero Gallinari, Mario Moretti e Raffaele Fiore – quattro dei componenti del commando di via Fani – negli spezzoni di un documentario francese di qualche anno fa, poi montati all’interno dello speciale tv condotto da Andrea Purgatori e andato in onda la scorsa settimana su La7. Qual è stata, per esempio, la giovinezza di Gallinari? «La mia scuola è stata la campagna», dice Gallinari, nato a Reggio Emilia da famiglia contadina. L’uscio di casa della famiglia Gallinari era diviso da un semplice cortile dall’abitazione dei padroni. Eppure, dice Gallinari, erano due mondi completamente diversi. «Più della metà di quello che guadagnavi lo davi al padrone, perché il padrone era il proprietario della terra». Venti metri separavano le due case, ma era come se ci fosse stato in mezzo un muro. Valerio Morucci racconta la storia del padre, nato nel 1912, passato per la seconda guerra mondiale e per il fascismo. «Una generazione consumata dal Novecento», dichiara Morucci, con la precisione di un montatore cinedocumentario che ha meditato e conosce tutto l’archivio della propria esperienza e ogni volta che ne parla taglia e monta il racconto in sequenze e scene complete. Raffaele Fiore comincia a lavorare col padre ai mercati generali di Bari. Il padre muore quando Fiore ha 12 anni. Quindi Fiore prende la licenza media e nel frattempo già lavora per dare una mano alla mamma. Mario Moretti nasce a Porto San Giorgio, nelle Marche, e da ragazzo, nel 1966, emigra a Milano, dove trova lavoro in fabbrica, alla Sit Siemens, azienda di materiali elettronici della quale tutt’ora Moretti conserva una perfetta conoscenza scientifica, reparto per reparto, così come una intatta memoria visiva dei fenomeni di alienazione: «continuo a lavorare su uno scatolino piccolo, minuscolo, sempre quello, io come tutti gli altri, ciascuno col suo scatolino […]». Ciò che colpisce di questi quattro proletari italiani intervistati – eccetto Moretti, erano tutti under 30 all’epoca del rapimento Moro (Fiore aveva appena 24 anni, ma se è per questo Rita Algranati ne aveva addirittura 19) – è la totale consapevolezza autobiografica, la cognizione precisa del mondo materiale da cui provengono, e il linguaggio chiaro, diretto e solido con cui narrano la propria vicenda personale, storicizzandola dentro il quadro più ampio dell’epoca. Morucci, in questo senso, è un retore vero e un maestro perfino nelle pause. Ciò che colpisce, insomma, è una consapevolezza che non è stata soltanto loro, ma il tratto speciale di una generazione e di un passaggio storico in cui i lavoratori, prima ancora che alcuni di loro decidessero di partecipare alle Brigate Rosse, si sono riconosciuti in quanto tali e hanno parlato di sé, del tema della propria vita, della propria esistenza e della propria sofferenza materiale. Quaranta e cinquant’anni più tardi, il postero, cioè il sottoscritto, è colpito e impressionato da questa testimonianza di antropologia operaia, prima ancora che brigatista: per la forza con cui si è cristallizzata, mentre tutto intorno il mondo e l’Italia tramutavano, e perché appare come la dichiarazione di un modo estinto, e infatti mediaticamente incompreso, di essere e di vivere. Al contrario, la devastazione in corso da oltre venti anni nel mondo del lavoro è, per chi oggi esce da scuola, un nuovo stato di natura, immutabile, in cui ciascuno è solo di fronte al proprio destino. Ma un tempo non è stato così e almeno in questo punto la storia ci è maestra.