Recensioni / Biblioteca

Questo libro non mantiene le promesse e di uno studio serio dedicato alle “utopie radicali”, che ebbero come culla Firenze negli anni Sessanta del secolo scorso, dovremo ancora lamentare l’assenza. Per uscire dall’impasse in cui si sono venuti a trovare anche gli autori del libro, probabilmente dovrebbero verificarsi alcuni fatti ed essere prese alcune decisioni. Da un lato sarebbe auspicabile che i temi e gli accadimenti che il libro tratta asistematicamente venissero studiati con metodo storico, evitando, così, di privilegiare le voci, i ricordi, le ripetizioni e i pregiudizi dei reduci. In secondo luogo sarebbe necessario capire dove le tensioni individuali e collettive di cui le “utopie radicali” (un termine distorcente e ambiguo) presero le mosse senza ricorrere a meccanici e nominalistici rimandi: i nomi degli insegnanti di cui molti dei protagonisti di questo libro furono allievi a Firenze (Quaroni, Libera, Benevolo, Ricci, Savioli, Eco, Dorfles… nomi e basta); i coevi movimenti artistici (Pop Art, Archigram, Stirling, Price, Hollein… nuovamente solo nomi, e Sottsass è sempre lì, ma solo sullo sfondo); alla politica e agli elenchi degli avvenimenti sociali (operaismo e figli dei fiori…). Il fenomeno al quale le “utopie radicali” diedero vita non fu unitario e coerente e quanto di straordinario produsse lo si può spiegare smettendo di pensarlo, a differenza di quanto il libro fa, come un’anticipazione delle trasformazioni dei tempi, e interpretarlo, all’opposto, come prova dello scarto che non viene mai meno tra la carta politica e quella intellettuale del mondo.