Recensioni / Mio tragico Stato barocco

Era il drammatico e irrisolvibile scontro
tra l’interiorità e la ragion di Stato, a spingere il giovane Manganelli verso i pensatori politici del Seicento italiano: e trovò una strada
nel monaco della Città del sole, che si erge
in una tesi di laurea già quasi Hilarotragoedia

Nove novembre 1945: seduta di laurea alla facoltà di Scienze politiche dell'università di Pavia. Il professor Vttorio Beonio-Brocchieri, ordinario di Storie delle dottrine politiche, è relatore di una tesi intitolata Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del '600 italiano (ora pubblicata da Quodlibet a cura di Paolo Napoli, con una introduzione di Giorgio Agamben, pp. 120, L. 22.000). Il lavoro è evidentemente anomalo rispetto allo standard accademico: appena 94 cartelle, una ottantina di note. Bibliografia sostanzialmente assente, se si esclude L'idea della Ragion di Stato nella storia moderna di Friedrich Meinecke. Ma Meinecke sta a Scienze Politiche come San Paolo ai testi evangelici... Eppure quella che il professore va a presentare non è la tesi affrettata di uno studente mediocre. Si tratta, infatti, di Giorgio Manganelli, che presenta una trattazione in cui la sicurezza e l'informazione dei giudizi sono pari all' understatement esibito. II laureando, che passa in rassegna a passo sostenuto i suoi autori - Paruta, Zuccolo, Settala, Tacito nell'età barocca, Campanella, Sarpi, Boccalini, Strada - deve essere non poco congeniale al relatore. Il cattedratico, dalla personalità multiforme (era aviatore, pittore e incisore, e attratto dalla parapsicologia), ha esortato quotidianamente gli allievi al contatto diretto col testo più che con la bibliografia. E con tutta evidenza Manganelli ne ha colto lo spirito.
Quando tra gli storiografi politici emerge la necessità di una definizione della Ragione di Stato e si fa chiaro che il problema centrale è comprendere il fondamento stesso dell'idea di Stato,l'orizzonte speculativo del Principe di Machiavelli è stato già trapassato. Nel Seicento, un secolo impacciato dai gravami della Controriforma e drammaticamente condizionato da ossessioni e lacerazioni, è diventato arduo anche solo raggiungere una visione nitida di cosa sia lo Stato e di quale sia la sua intima ratio. Si capisce bene per quale motivo in questo Contributo critico la figura di Campanella campeggi così grandiosamente isolata. Messo di fronte alla brutale pervasività del potere, con «lucido delirio razionale» il frate ha inventato una strategia valida anche al di fuori del1'ambito puramente individuale: pervenuto ai limiti estremi dell'umano e conosciuta in sé una «divina fraternità con gli elementi», scopre - insieme con la divinità dello Stato - la sue propria divinità. A quel punto la «disgregazione universale» gli sta si davanti, ma non ha più alcun potere effettivo su di lui. Manganelli, partigiano durante la guerre di liberazione è scampato in extremis alla fucilazione, guarda a Campanella con evidente complicità e non a caso gli riserva il capitolo più ampio.
Il Manganelli laureando confronta con radicalità un tema che i lettori dello scrittore «futuro» (esordirà nel '64 con Hilarotragoedia) non esitano a riconoscere immediatamente, e cioè 1'eterna, tragica quaestio del rapporto che connette il potere, nelle sue infinite complessità, e l'istanza sostanzialmente anarchica cui la letteratura dà voce. «La politica è anche nelle sue forme più schematiche parte del mondo interiore dell'uomo, e di infinite interiorità in reciproco rapporto». Quanto a espressioni come «acre e feroce innocenza», «durezza di pareti concettuali», «totale frammentarietà d'una vita dotata di innumerevoli centri», sono già forme evidentemente manganelliane. Perciò quella non è una laurea sui generis solo perché allestita in mezzo alle difficoltà del dopoguerra, ma perché si presenta come un saggio storico critico in proprio, con una tensione già letteraria.
Letto oggi per la prima volta nelle sue interezza, questo Contributo critico dimostra la precocità e la perentorietà della cifra stilistica dell'autore, e soprattutto impone la necessità di una migliore messa a fuoco di tutti quegli elementi di indubbia valenza politica che si ritrovano con regolarità anche nelle opere più squisitamente «letterarie». E la valenza politica consiste, essenzialmente, nell'esigenza di conseguire una prospettiva non limitata alla semplice individualità, e affrancata rispetto alla sfera emozionale e passionale. Nelle opere future, questa Forza umane e astute si rapprenderà in varie figure: Testo, Tiranno, Palude, Sistema, Padre e talora anche Amore, e sempre si troverà di fronte quell'elemento minimo ma irriducibile, che dal confronto trae una particolare potenza e nobiltà. «Chi si conosce degno di servire/ persegue chi par degno di imperare: / di virtù regia è segnale il martire». I versi di Campanella, citati in questa tesi, rivendicano la vera nobiltà a colui che riesce a mantenere la sua autonomia di fronte all'incombenza del potere. Elemento, questo, di tutto rilievo - come rilevava anche Maurizio De Benedictis in un saggio intitolato Manganelli e la finzione (Lithos 1998) - e tema costante in Manganelli. Fino alla fine, dato che nelle ultime settimane era tornato a Machiavelli e si interrogava sulla ambizione del fiorentino che le sue opere politiche ottenessero un opportuno riconoscimento letterario. La diade letteratura-politica era ancora di piena attualità per lui e il problema, dunque, non risolto.
Una nota conclusiva. Se Manganelli ha talora scherzato sulla paziente puntigliosità dei filologi, ciò non significa che non apprezzasse in sommo grado le edizioni allestite con competenza e precisione. E spiace dover menzionare i non pochi e non lievi refusi riscontrati, tanto più che in assenza di un apparato o di una nota filologica non si è in condizione di distinguere quelli eventualmente originari dagli altri. Col risultato che talora risulta compromessa l'intelligibilità stessa del discorso.

La barbarie celtica distillata in prosa
È incredibile come il dettato del Grande ombroso italiano si sposasse ai trasalimenti verdi
di William Butller Yeats In una accuratissima edizione di Viola Papetti escono quattro «Drammi celtici» da immaginare recitati contro -un telo, una parete appena

di Barbara Lanati

All'apertura del sipario, il palcoscenico appare completamente buffo: è destinato a restare tale per l'intera rappresentazione (...) Nessun rumore di fondo, nessun effetto speciale di qualsivoglia genere durante 1'intera rappresentazione: nient'altro che le voci Le due voci che si alternano e dialogano sono quelle di A e di B, titolo dell'omonimo lavoro di Giorgio Manganelli vide le stampe nel 1975, otto anni dopo quell'esplosivo Letteratura come menzogna. A e B: romanzo, essay philosophique, pièce teatrale? Difficile a dirsi anche se tutte le indicazioni di scena farebbero pensare all'ultimo dei tre «generi»,
categoria che - sospetto - non sarebbe piaciuta a Manganelli: come del resto nemmeno a W B. Yeats, di cui oggi vedono le stampe quattro Drammi Celtici, nella traduzione di Manganelli appunto (a cura di Viola Papetti, testo a fronte, Rizzoli-Bur, pp. 240, L. 14.000).
I lavori di Yeats vengono da molto lontano. Non tanto per la datazione della loro stesura - in ordine di raccolta Deirdre del 1905, Al pozzo dello sparviero (1915), Spiaggia di Baile (1901) e L'unica gelosia di Emer (1916) - quanto perché Yeats, deciso a rivoluzionare il teatro irlandese (e inglese), riporta alla luce storie tramandate oralmente o trascritte in codici intorno al XIV secolo, che affondano le radici nella saga gaelica. Lo scrittore irlandese le rivisita, cercando di portarne alla luce 1'atemporale modernità. Studia, consulta testi, a partire dalla scelta antologica che Standid O' Grady aveva dato alle stampe nel 1879. Il titolo: Early Bardic Literature. E poi ancora Chuculain of Muirthemme (la saga di Chuculain), raccolta, rivisitata e trascritta nel 1902 da Lady Augusta Gregory, che di Yeats divenne amica e collaboratrice preziosa.
Accompagnano queste traduzioni un lungo e lucido saggio di Manganelli del 1950 sul poeta irlandese; introduzione e apparato di note e stralci di «documenti e giudizi», tutto a cura di Viola Papetti, il cui intelligente lavoro mette a fuoco la correlazione estetica di Manganelli con Yeats, noto al lettore italiano soprattutto come poeta, studioso di letteratura con interessi magici, misterici e teosofici.
Cosa attrasse Manganelli al lavoro teatrale di Yeats? Di certo lo affascinò la determinazione con cui lo scrittore irlandese decise di trasformare, agli inizi del Novecento l'idea stessa di teatro, ribaltando il principio di verisimiglianza che, come nel caso del romanzo, lo aveva fino ad allora sorretto. Spogliandolo di qualsiasi orpello decorativo, macchinario, trucco scenografico. «Non amo, diffido di, disamo, ho in uggia, in dispetto, detesto il teatro agonistacentrico, inventato per il grande attore, colui che "strappa 1'applauso a scena aperta '"», scriveva nel'52 Manganelli. Eppure Manganelli il teatro lo ama, lo ama «diverso», là dove siano «proibiti gli applausi». Un teatro in cui «1'attore sa di essere uno strumento, una cosa nobile e vile, un segno, una nota, uno sfregio nello spazio». Anche Yeats vuole un teatro nudo, spoglio. Ama il teatro giapponese che ha conosciuto attraverso Fenollosa, i cui scritti vengono dati alle stampe per interesse di Ezra Pound, e cui Yeats scrive la prefazione. Ama un teatro «povero» e fuori dal tempo: un telo, una parete. Ascolta i consigli di quel geniale Eduard Craig. In quegli anni, insieme ad Appiah, è il mostro sacro della innovazione scenica. Via sedie, mobili, lampade e candelabri ottocenteschi! Via abiti fluttuanti, palpiti e crinoline! Meglio la voce quasi atona che pronuncia parole che vengono da lontano. Evocano un mondo che affonda nella memoria storica collettiva, ma le cui coordinate non sembrano sfiorare neppure lontanamente il presente. «Quadri verbali», strumenti musicali rozzi, silenzi e soprattutto maschere che perYeats «permettono di tenere una giusta distanza della vita», così da sollecitare in chi guarda e ascolta «quelle profonde emozioni che esistono solo nella solitudine e nel silenzio». Le parole sono diYeats, ma potrebbero essere di Manganelli, che ai suoi drammi celtici lavora con la modestia del vero traduttore che interroga le fonti e risale alle diverse versioni di una stessa storia. Come aveva fatto Yeats.
E di Yeats Manganelli cerca e trova il timbro. Rintraccia i suoni, 1'andamento freddamente tragico della frase. Ne perlustra i rapporti con i contemporanei. Entrambi lavorano per ritrovare la magia barbara di quel mondo perduto, dalle credenze «per metà mitologiche e per meta filosofiche», innervandolo della struttura formale della tragedia greca. Con soluzioni linguistiche terse, senza cedimenti.
Il ciclo delle avventure di Chuculain si scioglie lento nei quattro drammi, remoto e modernissimo. «...Come palcoscenico, come illusione, come allucinazione io amo il mio regno; come potenza, ormai 1'ho dimenticato; ora è sabbia, come doveva essere; potrei ricordarlo come cosa dolce ed effimera; ma perché ricordare quel catalogo di angosce che fu il mio regno? Preferisco rammentare il mio rubino, la rete di perle con cui copersi uno sfregio sul corpo delta donna che amavo. Naturalmente, anche quella era un’ allegoria: la cicatrice amata genera perle. Quelle perle non hanno mai cessato di abbagliarmi». Il timbro della voce, la secchezza del dettato, il senso di ineluttabilità, segnato «dall'ombra del fato», ricordano quelle dei drammi celtici di Yeats. Ma sono di Manganelli. Da A e B appunto.
Perché stupirsi? Non è forse vero che Ezra Pound - e Yeats lo ricorda - gli aveva detto «combatterò fino alla morte contro la crudeltà delle piccole ambizioni»? E non è vero che le piccole ambizioni sono la strada diretta alla volta del compromesso? Nessuno dei tre ne voleva sapere. Né di piccole ambizioni, né di compromesso.