In un libro, formazione e progetti prima del successo del Beaubourg
Pubblichiamo un estratto dell’introduzione del libro “Renzo Piano prima di Renzo Piano. I maestri e gli esordi” (320 pagine, 32 euro) di Lorenzo Ciccarelli, edito da Fondazione Renzo Piano e Quodlibet Habitat.
«QUANDO la busta sigillata è stata aperta» – ricorda Jean Prouvé (1901-1984) – «ed è stato letto il nome “Piano&Rogers”: silenzio. Nessuno aveva la minima idea di chi fossero».
È il 15 luglio del 1971: in un’afosa giornata dell’estate parigina, tra 681 proposte, Jean Prouvé, presidente della giuria del concorso per il Centre Beaubourg, futuro Centre Pompidou, proclama vincitori un architetto italiano di 34 anni e un inglese di 38. Renzo Piano (nato nel 1937) e
Richard Rogers (nato nel 1933) hanno vinto la più importante commessa pubblica di Francia del dopoguerra.
Mentre Rogers poteva vantare due edifici ripetutamente pubblicati – la casa Brumwell a Creek Vean (1964-1967), vincitrice del RIBA Award, e l’innovativo stabilimento industriale Reliance Controls a Swindon (1967) – Renzo Piano era sconosciuto sia al grande pubblico che alla critica specializzata.
La giovane età dell’architetto genovese, il non avere costruito edifici di rilievo, e il planetario successo mediatico e di pubblico del centro culturale parigino, hanno retroattivamente imposto il Centre Pompidou come il mitico inizio della carriera di Renzo Piano. Il topos della mito-biografia artistica si è imposto quasi naturalmente, facendo di Piano il «genio» che, in giovanissima età e senza sforzo apparente, plasma capolavori che anticipano un avvenire denso di successi. In contrasto con questo luogo comune, il Centre Pompidou non è il mitico inizio, quanto l’atto conclusivo dell’ultradecennale periodo di formazione di Renzo Piano, una fase – oscurata dalla fama planetaria del Beaubourg – della carriera dell’architetto genovese: dall’iscrizione all’università, nel 1958, sino al concorso del 1971.
Un intervallo temporale che, nelle mostre e nelle pubblicazioni dedicate al lavoro di Piano, viene solitamente indicato come “Early Works”, ma che egli ama ricordare come «la mia preistoria».
Una definizione icastica, che svela in controluce il significato profondo di quegli anni: anzitutto l’assenza di tracce dirette. Come per la preistoria la documentazione è affidata ai fossili – residui integri o parziali di organismi un tempo viventi –, così la memoria degli esordi professionali di Piano sopravvive unicamente nelle fotografie e nei disegni d’archivio. (…)
Poi l’era del nomadismo.
La preistoria dell’uomo è congiunta al nomadismo e alla caccia; non lascia testimonianze scritte né tracce di insediamenti stabili. Anche gli anni della formazione di Piano sono contrassegnati dal «nomadismo»: dove la scelta del viaggio e dello spostamento – in linea con la cultura di quegli anni che ebbe, tra gli altri, in Bruce Chatwin e in Jack Kerouac geniali e inquieti cantori – scandiva allora il ritmo della sua esistenza. Questo girovagare apparentemente senza meta fu in
realtà, come vedremo, un inseguimento di caccia: di maestri e di insegnamenti, in Italia e all’estero.
Infine l’abbandono.
La preistoria si chiude e lascia il passo alla storia: definitivamente, senza possibilità di ritorno. L’affermazione parigina segnò per Piano una cesura esistenziale, non solo professionale, netta e irreversibile: l’attraversamento di una soglia che chiude definitivamente il passato. Dal piccolo studio genovese, quasi famigliare, si passò al frenetico universo metropolitano di Parigi; da un pugno di collaboratori all’organizzazione di centinaia di architetti; dalla baia protetta dell’impresa edile di famiglia, al mare aperto e burrascoso delle pressioni politiche, della sovraesposizione culturale e delle cause legali che Piano affrontò ripetutamente nei sette anni del cantiere parigino. Quali ragioni spingono allora a indagare la «preistoria» di Renzo Piano, se le tracce sono sfuggenti e le testimonianze evanescenti?
Le ragioni non si esauriscono soltanto in una più articolata comprensione del Centre Pompidou, icona dell’architettura del Novecento. Illuminando la «preistoria» si chiarisce, di riflesso, anche tutta la successiva produzione di Renzo Piano, che finisce così per rivelare i numerosi nessi palesi e segreti che legano le opere di un corpus architettonico, la cui estensione e qualità ha pochi paragoni in epoca contemporanea.
Infatti, sin dai primi anni, Piano aveva individuato, seppure a livello embrionale, gli elementi distintivi della sua architettura, gli indirizzi progettuali e le soluzioni tecniche che caratterizzeranno, rielaborati e approfonditi, i celebrati capolavori dei decenni successivi.
La misura formale; la regolarità «aurea» della pianta e dei prospetti; l’uso sapiente della luce naturale; il disegno accurato delle strutture fluttuanti di copertura; la traslucenza dei materiali e la esibita leggerezza della costruzione; la modellazione accurata dei giunti, che da dispositivo tecnico si tramutano in congegni espressivi: sono tutti caratteri che, presenti in nuce nelle ricerche della «preistoria», fioriranno nella Menil Collection (1982-1986), nella Fondation Beyeler (1992-97) e nel Piano Pavilion del Kimbell Museum (2007-2013), per fare solo qualche esempio.
La «preistoria» rivela inoltre l’avvio della costruzione di quella dialettica biografica e professionale che innerva l’esistenza di Piano: da un lato a ricerca tenace di una dimensione e di riferimenti internazionali; dall’altro l’attaccamento fisiologico a Genova, la sua città natale. Piano ha vissuto a Firenze e a Milano, dove ha frequentato l’università, poi, dal 1966 al 1971, si è progressivamente trasferito a Londra, ma Genova è rimasta, e rimane tutt’ora, il suo porto sicuro. A Pegli, dove è nato, aprì nel 1964 il primo studio, e, intorno a Pegli – sulla collina degli Erzelli o a Punta Nave – lo manterrà sempre, oscillando per mezzo secolo negli stessi dieci chilometri di costa.
L’appartenenza intima e orgogliosa alla sua città è il contraltare dei viaggi di formazione, determinati da un’insaziabile curiosità e ambizione.